Un referendum farlocco
Il referendum del 22 ottobre 2017, presentato come strumento democratico per la conquista dell’autonomia regionale, promosso con enfasi dalla Lega Nord e da varie forze indipendentiste-secessioniste, deciso dal Consiglio regionale (che poteva più rapidamente aprire da tempo una trattativa con il Governo), è stato definito da alcuni un referendum “farlocco”, cioè fasullo. La consultazione referendaria del 22 ottobre, che ha raggiunto il quorum nel Veneto arrivando al 58% (in Lombardia però al 40%), si è rivelata carica di contraddizioni e di prospettive preoccupanti. Era:
• inutile, perché chiedeva poteri già previsti in Costituzione. Esiste, infatti, una via costituzionale per chiedere maggiore autonomia (come ha fatto l’Emilia-Romagna) previa consultazione degli enti locali e dei comuni, mai avvenuta;
• dannosa, perché è costata 16 milioni di euro (in Lombardia 50 per un voto elettronico inefficiente) che la Regione avrebbe potuto investire nel lavoro o nel sociale. Zaia, tra l’altro, si è inventato un inesistente conflitto con lo Stato a proposito dei due milioni di euro per le spese di ordine pubblico, richiesti dal Ministero dell’Interno alla Regione sulla base della legge 136/1976 (in base alla quale è previsto che l’organizzazione dei referendum faccia capo ai promotori);
• strumentale, propagandistica, perché la Lega ha preferito procedere con le modalità che più gli facevano comodo dal punto di vista elettorale e perché alcuni movimenti affini indipendentisti l’hanno considerato il primo passo verso la secessione. Ne è conferma il fatto che il referendum è stato celebrato a fine legislatura, con istituzioni non legittimate ad aprire una trattativa che si prevede lunghissima;
• centralistica, a favore di Zaia, che mira a conferire maggiori poteri all’organo che lui governa e non a distribuirli ai territori. Lo dimostrano il caso di sindaci contrari al referendum, stanchi del centralismo della ragioneria regionale molto lenta e selettiva nella concessione di fondi (come a S. Bonifacio o nel bellunese), o il moltiplicarsi di mini referendum (come quello della provincia di Belluno che vuole l’autonomia delle terre alte delle Dolomiti per evitare che circa 30 Comuni di confine scappino verso le province autonome o il Friuli);
• demagogica, perché l’enfasi localistica è rivolta a manipolare l’opinione pubblica col mito dell’autonomia regionale incontaminata, pronta a bloccare sprechi o corruzione. Basta ricordare le tante responsabilità locali in merito al dissesto del territorio, alla tutela dell’ambiente, alla Pedemontana, al Mose di Venezia, al disastro delle banche venete, alla corruzione amministrativa in alcuni enti locali, alle presenze mafiose).
Il mondo cattolico veneto si è variamente articolato. Alcuni hanno ritenuto generica la formulazione del quesito referendario, coscienti della conseguente scarsa efficacia immediata dell’esito. Altri hanno invitato alle urne per aprire nuove opportunità. Molte organizzazioni si sono presentate divise. Il Patriarca di Venezia ha cercato di dare importanza all’evento rilevando, però, la necessità di armonizzare le peculiarità locali con la comunione nazionale: “Autonomia non significa separazione; può essere, semmai, uno stimolo e un aumento di responsabilità verso un’integrazione più forte e attenta alle caratteristiche di ogni contesto” (“Avvenire” 21.10.2017). Zaia si è dichiarato d’accordo con lui ma l’obiettivo di incamerare 9/10 delle tasse significa preparare la secessione.
Il referendum ha rivelato tutta la pretestuosità della retorica autonomistica della Lega che ha voluto una prova per misurare la sua forza elettorale ritenendo superfluo aprire un confronto con il Governo per ampliare ordinatamente il potere regionale. Ne era cosciente lo stesso Zaia, contrario alle dimissioni in caso di sconfitta: “Non è che se passa hanno vinto i veneti e se non passa perdo io” aggiungendo significativamente: “La trattativa si può fare comunque” (“L’Arena” 22.10.2017).
La vittoria veneta non può nascondere un astensionismo diffuso (palese in Lombardia), provocato anche dall’uso speculativo del ricorso alle urne, richiesto non per il bene della popolazione, ma per gli interessi politico-elettorali di qualche partito od oligarchia locale. Per Matteo Salvini e il suo vicesegretario, l’eurodeputato vicesindaco di Verona, Lorenzo Fontana, è necessario che ogni regione debba ripetere l’esperienza veneto-lombarda perché “la battaglia identitaria contro l’omologazione” possa cambiare non solo l’Italia ma anche l’Europa (“L’Arena” 23.10.2017).
La legittima volontà di restituire potere decisionale ai Comuni e agli Enti Locali, al fine di creare un sistema di autonomie, si è caricato di contenuti sovranisti in sintonia con alcune allarmanti esperienze europee orientate a un localismo nevrotico, divisivo ed escludente.
Su iniziative simili prossime alla logica dei populismi tribali o delle patrie carnali, sul danno sociopolitico e sull’effetto boomerang di alcune esperienze, è bene risvegliare un’attiva vigilanza. Spesso le ossessioni identitarie cominciano col sorriso e finiscono con la ferocia delle armi o con un’ulteriore dipendenza. Possono aprire la strada sia alla frantumazione dell’Europa che all’indebolimento degli Stati nazionali, esposti a un ulteriore dominio economico-finanziario da parte di grandi poteri, pronti ad attuare la classica politica del divide et impera, del dividere per comandare. È avvenuto nei Balcani, in Medio Oriente e in Africa da molti decenni. Sta avvenendo in Europa e in Italia. Mosaico di pace ne ha parlato spesso. Ricordo il dossier sul “tribalismo guerriero” (luglio 2010) e quello sui muri, “Quella linea invisibile che separa” (febbraio 2016).