Il diritto di migrare
Alcune per lavoro, altre per guerre o disastri ambientali.
Mappa di un mondo che migra.
Pur senza poter più distinguere tra migranti e rifugiati.
In Atlas des migrations: Un équilibre mondial à inventer, C. Withol de Wenden, nota studiosa del fenomeno migratorio, tracciava un quadro di massima delle migrazioni a livello mondiale: un lavoro in cui ci si pone il problema di come si possa avere una migliore governance del fenomeno migratorio. È tornata sul tema in un agile libretto, Il diritto di migrare, uscito con una Prefazione di Enrico Pugliese, in Italia, nel 2015 (2013). A pochi anni di distanza, il quadro generale appare enormemente mutato, le incertezze sembrano essersi moltiplicate; la governance mondiale delle migrazioni sembra intesa, in realtà, più che altro, al contenimento delle migrazioni stesse. Si tratta di 250 milioni di migranti (a fine 2017), dei quali 22 milioni e mezzo rifugiati. Tramontata l’ottimistica idea secondo cui la mobilità era concepita come un bene pubblico mondiale, da cui attendersi benessere, ricchezza ecc., oggi il fenomeno migratorio (253 milioni, cfr. Idos 2017) incontra particolari difficoltà, in Italia (dove sono circa 5 milioni, pari all’8,3% dei residenti), nell’UE (36.917.762, di cui 20.807.294 non UE, secondo dati 2015) e nel mondo. Il diritto di uscita non è ovunque garantito. Non lo è quello di entrata. E, in certi casi, non lo è neppure il diritto di rimanere, tra Paesi in cui viene richiesto un passaporto o analogo documento anche solo per spostarsi all’interno e Paesi da cui, dopo giorni e mesi di viaggi disastrosi, dopo essere riusciti a sopravvivere a tante insidie, giunti, infine, stremati, alla meta, si può essere respinti.
I controlli alle frontiere si sono in genere duramente inaspriti lungo il 2016 e il 2017. Vi è chi muore per gli stenti, per la denutrizione, alle porte dei Paesi più ricchi, quelli in cui si vorrebbe poter entrare, lavorare. Vivere. Basti pensare al Mediterraneo, oggi tristemente noto per l’alto numero di morti nel tentativo di giungere in Italia, in Europa (va ricordato che esistono oggi migrazioni Sud-Sud, verso Libano e Giordania – 64 milioni circa di profughi, nda). La stessa Europa che si è sempre riempita la bocca con il tema dei diritti umani – la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo è del 1948 – di fronte alle migrazioni degli ultimi anni – provenienti soprattutto da una Siria lacerata e impoverita, attraverso i Balcani e la Grecia (fino all’intesa con la Turchia, marzo 2016 – anche se è difficile pensare alla Turchia come a un Paese sicuro, dato il mancato rispetto dei diritti umani, nda); o da alcuni Paesi del Centro Africa in gravi difficoltà, ha scelto di chiudere le frontiere, alzare muri. Di respingere chi tentava di traversare un Paese per entrare in un altro. In particolare, si sono distinti in quest’opera di respingimento di persone a rischio della vita, nazioni come l’Austria e l’Ungheria di Orban. Ma anche la Polonia ha mutato atteggiamento, essendo oggi molto meno accogliente di quanto non lo fosse un tempo nei confronti di migranti e richiedenti asilo. In Italia, si sono avute dichiarazioni pesanti di alcuni partiti politici contro quello che si definiva come un greve, irrisolvibile problema per la nazione (eppure il bilancio costi/benefici dice altro: per le casse statali, tra +2,1 e +2,8).
I canali di ingresso legale sono diventati rari. Le morti in mare, sconvolgenti, numerose (nel solo Mediterraneo, più di 5000 le vittime accertate, nel 2016). L’operazione Mare Nostrum è stata chiusa a fine 2014. Oggi l’Agenzia Frontex opera attraverso il programma Triton: scopo, il controllo, la salvaguardia delle frontiere europee e italiane. Di fronte alle politiche di chiusura e respingimento attuate dall’UE, i Paesi membri, invece di discuterle criticamente, di chiedere la revoca di certi provvedimenti, sembrano vivere rigurgiti di un mal riposto nazionalismo. Non solo: la campagna condotta nel 2017 contro le Ong impegnate nel soccorso ai migranti le ha messe in condizione di non potersi più muovere nelle operazioni di soccorso, per un certo tempo. Risultato? I profughi rischiano di rimanere intrappolati in Grecia o in Italia, o di essere rimandati indietro. Non necessariamente in un Paese sicuro. Il terrorismo viene usato come alibi. Il Paese di nascita condiziona moltissimo, ancor oggi, la vita, il futuro delle persone. Le ineguaglianze sono in buona parte riconducibili a queste differenze (reddito pro capite, nel mondo 15.758$, di cui nel Sud del mondo, 10.364; nel Nord 40,140; UE, 28.597; Italia, 38.912, cfr. Idos, Dossier statistico 2017).
Rifugiati e migranti
L’Europa, un’Europa in grandi difficoltà, travagliata dalla mancanza di reali politiche in comune, se non quelle relative all’economia e alla chiusura delle frontiere, non riesce ad essere un credibile punto di riferimento. Anzi, sempre più spesso accade che le vengano richiami dall’Onu o da Enti internazionali come UNHCR o Amnesty International: che il 12 dicembre ha denunciato le complicità di Italia e Europa in crimini contro l’umanità. A fine 2017, la situazione di gran parte della Siria, di certe aree dell’Africa è catastrofica, la gente sopravvive a stento nei campi profughi: com’è possibile che l’UE non se ne faccia carico, che non cerchi soluzioni positive ma si adoperi per la chiusura delle frontiere?
È certamente più difficile oggi fare nette distinzioni tra migranti e rifugiati: le condizioni oggettive fanno sì che sia facile il passaggio da una all’altra categoria. Il diritto d’asilo incontra maggiori difficoltà ad essere riconosciuto rispetto al passato. Come le migrazioni in genere. Scrive Cataldi (in Macioti, a cura di, 2017) che i cittadini stranieri residenti in Europa sono circa 35 milioni, vale a dire circa l’8,4%della popolazione. Tra il 1990 e il 2010, l’Europa ha attratto 28 milioni di migranti, tre volte più di quelli giunti tra il 1970 e il 1990. Anche grazie a loro si è determinato lo sviluppo dell’Europa. Un’Europa che oggi, tra l’altro, sta vivendo un crollo demografico, che si gioverebbe delle presenze di nuovi membri.
Peraltro, esiste oggi anche una nuova categoria di cui tenere conto, quella dei migranti ambientali: dove collocarli? Tra i migranti? Tra i richiedenti asilo? Se l’ambiente non consente più una vita tranquilla, se i rischi per la salute sono evidenti, riconosciuti, come è possibile un mancato riconoscimento tra i rifugiati? Ma vi è chi teme l’ampliamento della categoria: si calcola che vi siano circa 40 milioni di migranti ambientali. E domani, quanti saranno? Per la fine del secolo, avremo forse 200 milioni di persone in questa condizione.
L’UE ha fatto accordi (18 marzo 2016) con la Turchia di Erdoğan, colui che ha mandato in carcere gli intellettuali, i nemici politici – specie dopo il fallito golpe del15 luglio 2016 – primo nel violare la Convenzione europea dei diritti umani. Un Paese, la Turchia, per nulla sicuro. Eppure vi è una Raccomandazione dell’UE, emersa in pubblico nel marzo 2017, il cui tema base è il rimpatrio forzato di un milione tra profughi irregolari e migranti.
Non solo: si sono avuti numerosi accordi bilaterali, annunciati come fatti dirimenti, positivi per definizione. L’Italia ha fatto sua questa Raccomandazione, grazie al piano Minniti-Orlando (aprile 2017): si accelerano le procedure per il riconoscimento dei rifugiati, è abolito il secondo grado di giudizio, ove vi sia stato un iniziale diniego; eliminato il contraddittorio, visto che si useranno video-registrazioni. Si amplia il numero dei centri di detenzione amministrativa per gli “irregolari”. I richiedenti asilo dovranno fare lavori socialmente utili, a titolo gratuito, nell’attesa. Ma, soprattutto, è da ricordare il Memorandum d’intesa con la Libia, del 2 febbraio 2017, cui hanno fatto seguito numerose denunce della condizione dei detenuti, colpevoli di aver tentato le vie della migrazione. Carceri sovraffollati, tortura, inedia caratterizzano questi luoghi che anche l’Italia di Gentiloni ha voluto, per i migranti. Così come ha voluto accordi con il Niger, per porre un freno alla rotta trans-sahariana; il tutto, in cambio di soldi: 50 milioni di euro da parte italiana. Accordi sono stati fatti con il Sudan (3 agosto 2016), siglati dai due capi della polizia. L’Italia offre formazione (alla polizia del Sudan), in cambio della possibilità di rimpatri. Per questi e per altri accordi bilaterali, ricorda Salvatore Fachile, avvocato, consigliere ASGI (M.I. Macioti, a cura di, Conflitti… 2017), il senso è chiaro: l’erogazione di fondi è condizionata al governo delle frontiere. Sono interessate Libia, Algeria, Egitto. Il Niger entra nella logica di esternalizzazione delle frontiere, e l’Italia potrà rimpatriare i nigeriani e chi dal Niger sia passato. Misure efficaci: elogi di Minniti si levano in varie parti d’Italia. Si avrà una certa flessione negli arrivi via mare, 181.436 nel 2016. E il principio di non refoulement, un tempo imprescindibile, per rifugiarti e richiedenti asilo?
Cosa fare, in positivo, di fronte a questa situazione? La prima misura da prendere sarebbe quella di una riforma del Regolamento di Dublino III, che prevede l’obbligo della richiesta di asilo nel primo Paese raggiunto. Insieme, l’ampliamento di canali di ingresso legali, come la buona pratica dei ‘corridoi umanitari’: ad oggi, numericamente molto circoscritti.
Emigrazioni dall’Europa
Intanto, dalle nazioni europee di nuovo, oggi, si parte per cercare lavoro, per evitare disoccupazione e inoccupazione. Per non arrendersi al rischio del lavoro nero, o grigio. In Italia i media ci hanno avvertiti: partono studenti universitari che cercano di prendere specializzazioni, di seguire all’estero dottorati di ricerca. È la “fuga dei cervelli”. Ma non sono solo i giovani a partire. Parte gente sui 50 anni, famiglie intere. Dal Sud come dal Nord: la Lombardia è una delle realtà più interessate da questo fenomeno. Il FAIM, Forum delle associazioni italiane nel mondo, che ha promosso una giornata di studio su questo tema a palazzo Giustiniani il 10 novembre 2017, parla di espatri rilevanti. Simili a quelli della seconda metà degli anni Sessanta. Oggi le cancellazioni di residenza dicono una cosa, i dati del Paese di arrivo un’altra. Il che fa pensare anche a migranti di origini non italiane che, vista la situazione difficile del Paese, cercano anch’essi nuove mete, diversi possibili sbocchi. Dall’Italia risultano partite, negli ultimi anni, circa 300mila persone l’anno. Di cui solo il 30% con laurea: non sarebbe quindi prevalente la fuga dei cervelli.
Ora, abbiamo appreso da tempo che la migrazione o, come oggi si preferisce dire, la mobilità, dovrebbe produrre benessere, ricchezza. E concorrere a esportare il disagio sociale, la possibile contestazione. Tutto vero, tutto probabile. Però sembra che partano, di nuovo, nuclei familiari. Con ragazzi al seguito. Ora, l’Italia è già adesso un Paese dalla scarsa natalità. Riusciranno, le immigrazioni verso l’Italia, a compensare il declino demografico? Dove stanno andando, dove vanno queste famiglie italiane, i più giovani? Molti, in Gran Bretagna. Altri, in Svizzera, in Germania. O in Francia. Esiste una migrazione verso la Polonia, verso altri Paesi dell’Est quali Macedonia, Ucraina, Romania, Armenia. O più lontano, verso l’Australia. Uno dei problemi basilari che subito si affaccia è il problema linguistico: vi è chi parla solo italiano. Vi è chi confida nella conoscenza dell’inglese: certamente utile, ma non sufficiente. La mancata conoscenza della lingua del posto penalizza, di regola, questi attuali, nuovi migranti.
I più preparati riescono a trovare lavoro nelle banche, nelle assicurazioni, nel mondo della cultura, della ricerca scientifica. I meno preparati, quelli partiti senza conoscenze adeguate in merito alla normativa del Paese di arrivo, rischiano però un arretramento sociale, la clandestinità. Il che oggi, ad esempio nell’America di Trump, può essere un fatto particolarmente negativo. Circa 5 milioni gli immigrati in Italia, altrettanti gli italiani all’estero. Problemi? Di integrazione, di tipo religioso, lavorativo: servirebbero politiche adeguate.