Corsa a ostacoli
Un viaggio che lacera, tortura, denigra.
Non degno di alcun essere umano.
Prima ancora di poter tentare di balbettare un giudizio critico sulle scelte recenti del governo italiano e dell’Unione Europea in tema di migrazioni e sul relativo accordo con il semi-governo libico e con le fazioni che si spartiscono territorio e potere su quella sponda sud del Mediterraneo, riteniamo che sia assolutamente indispensabile ascoltare dalla viva voce dei protagonisti della corsa a ostacoli africana, cosa succede in quel lembo di terra, i pericoli che si nascondono dietro ogni curva del viaggio e in particolare com’è la vita di un nero in Libia. Per questo abbiamo incontrato un gruppetto di immigrati provenienti da diversi Paesi africani e che sono ospitati in un centro di accoglienza in attesa dell’esito della loro richiesta d’asilo. Ciò che impressiona da subito la nostra interlocuzione è una sorta di refrain che spunta e si diffonde tra tutti sin dall’inizio della conversazione. Si tratta di qualcosa di più di una semplice convinzione fino ad apparire come una certezza assoluta: “Ma voi non potete capire”, “Voi, qui, dall’Italia non potete credere...”. Il riferimento è sì allo stile di vita tanto differente, al comfort dal quale siamo circondati e a tutto ciò che ovatta la nostra comprensione del dolore e del disagio fino a ridurla a superficiale indifferenza, ma è soprattutto perché quel dolore è indicibile, incomunicabile. E il pensiero corre alle tante testimonianze che in questi anni abbiamo ascoltato sui campi di concentramento nazisti. Anche in riferimento a quell’esperienza i sopravvissuti ripetevano la stessa sensazione impotente, il medesimo convincimento che, per quanto si sforzassero, non riuscivano a comunicare la disumanità delle pene inflitte, della sub-vita cui erano stati costretti, della spogliazione cui erano stati sottoposti con una lucidità spaventosa al punto da essere stata programmata.
Quali condizioni?
Si comincia spiegando loro quanto sia importante raccontare la verità sul viaggio che hanno percorso per raggiungere l’Italia per comprendere e giudicare le scelte politiche e gli accordi con alcune fazioni libiche. L’intento dichiarato del ministro Minniti è di tentare di fermare le migrazioni prima della traversata nel Mediterraneo ma forse l’opinione pubblica non conosce esattamente le condizioni di vita cui sono sottoposte le persone che passano obbligatoriamente per la Libia, prima di imbarcarsi nei barconi della disperazione per raggiungere le coste siciliane. Le facce di Diallo, Housman, Yaw, Koyo e Kofi si stupiscono della nostra meraviglia. Abbiamo cominciato chiedendo loro qual è normalmente il tratto e l’esperienza in assoluto più difficile del viaggio che li porta dal Ghana, dalla Giunea, dalla Costa d’Avorio, dalla Guinea Bissau in Italia. Forse il mare, il deserto... e tutti sono concordi nell’affermare che la permanenza in Libia è stata la più pericolosa carica di stenti e incertezze. “Voi non potete capire, la vita di un nero in Libia vale meno di un animale”, incalza Yaw. Diallo che è proprio quello più diffidente, esprime compostamente la rabbia e la difficoltà di ritornare con la mente a poco più di un anno fa: “Persino la preghiera mi era vietata, mi sono state sottratte e bruciate due copie del Corano da persone che si dichiaravano musulmane”. A Diallo segue Lamin: “La pelle nera è motivo sufficiente per essere uccisi, gli omicidi sono all’ordine del giorno”. Ma proviamo a ricostruire il viaggio con ordine almeno partendo da poco prima dell’ingresso in Libia.
I viaggi
I primi libici si incontrano a Niamey in Niger, è proprio lì dove si stringe un accordo per intraprendere il viaggio e avviene quella che a noi appare da subito una sorta di riduzione in schiavitù. Ogni gruppo di migranti deve ricordare e ripetere il nome di un libico che diventa il lasciapassare, il biglietto per passare da una meta all’altra fino alla Libia. Non ci sono più altri nomi di persona, ma solo di quello di chi si è acquistato i migranti. Il deserto si attraversa a bordo di pick-up, il cassone può arrivare a stipare fino 26 persone, il caldo e la carenza d’acqua non sono l’unica difficoltà, per Diallo ad esempio è stato drammatico attraversare il confine tra Agadez ed el-Gatrun, proprio per nascondersi al passaggio di confine in una valigia sotto ad altre accatastate sopra, tra frigoriferi e mobili che facevano da nascondiglio di altri migranti. Lì ha rischiato il soffocamento e per essersi mosso troppo e aver fatto rumore vomitando, si è preso anche le bastonate dell’autista del pick-up che voleva evitare di essere scoperto dalle guardie di confine.
Essere di colore in Libia significa essere alla mercé di chiunque, persino i bambini si sentono autorizzati a sputare e lanciare pietre contro i migranti. A volte si resta feriti, ma un nero non prova nemmeno a recarsi in un ospedale! Diallo ci racconta che può capitare di essere avvicinati da un gruppetto di giovani libici che ti chiedono: “Tu sei pro o contro Gheddafi?” e tu non sai cosa rispondere perché potrebbe essere un gruppo di nostalgici del vecchio regime o, al contrario, di quelli che hanno contribuito a rovesciarlo. Non sarebbe il primo caso in cui un nero viene ucciso solo perché non ha dato la risposta gradita. La situazione per un subsahariano si complica ancora di più se si è cristiani e Yaw ci dice: “Ho dovuto negare di essere cristiano molte volte, ma capitava anche che per dimostrare di essere musulmano ci venisse chiesto di recitare versi del Corano a memoria e allora erano violenze”. Si doveva mentire persino sul proprio nome perché se non era di tradizione islamica diventava un pretesto per essere sottoposti a torture, violenze a loro piacimento.
Un vero inferno
È sempre Yaw che ci racconta di quell’inferno dal quale non si può uscire, non si può nemmeno tornare indietro e che solo una piccola parte riesce a prendere un mezzo per tentare di attraversare il Mediterraneo.
Il prezzo più alto – come spesso succede – lo pagano le donne che vengono tutte violentate, restano incinte. Ci viene raccontato di un loro amico che adesso si trova a Torino che era partito con sua moglie. In due, per farsi coraggio, per proteggersi, perché uniti per la vita. Nel centro dove erano “ospitati” un giorno alcune persone sono arrivate con armi in pugno e hanno intimato a lui di non muoversi e a lei di seguirli. Da quel giorno non se ne hanno più notizie. E, d’altra parte, sono tante le ragazze che arrivano in Italia con uno o più bambini piccolissimi o che sono incinte. Kofi dice che un giorno con il suo italiano stentato ha dovuto spiegare a un italiano che quelle ragazze non partono con bambini così piccoli da casa ma che li partoriscono nel tempo (a volte anni) di permanenza in Libia. Il giudizio dell’italiano era stato particolarmente sprezzante perché parlava di ignoranza e di superficialità delle donne africane (soprattutto nigeriane) che sottopongono bambini di pochi mesi o addirittura di pochi giorni a un viaggio incerto, pericoloso e massacrante. Segno ulteriore dell’ignoranza di tanti italiani che genera pregiudizio!
Poi ci raccontano di essere rimasti a lavorare nei cantieri edili o nei campi. Anche in questo caso si meravigliano che soltanto ora le agenzie delle Nazioni Unite abbiamo scoperto la compravendita di africani come schiavi e il lavoro forzato. “In Libia – ci dicono – è sempre stato così! C’è una o più organizzazioni che provvedono manodopera a buon mercato per chi deve ristrutturare una casa o per un’azienda o per qualsiasi altro lavoro”. Manodopera pagata a buon mercato all’organizzazione e non al migrante che invece è costretto a lavorare giornate intere gratuitamente o per un piatto di minestra e un posto al coperto o per pagarsi il “passaggio” in Italia che versi alla stessa organizzazione che ti ha ridotto in schiavitù. È avvenuto che qualcuno sia stato ucciso a sangue freddo per aver chiesto la paga della giornata, oppure di lavorare sotto la minaccia delle armi. Anche durante il lavoro si può venir vessati da ogni gruppo armato, che sia la stessa polizia, le bande armate, le milizie o semplici civili. I più temuti a Tripoli e altrove sono gli Asma Boys. Una vera e propria mafia locale come ce li descrivono i racconti. Dediti prevalentemente allo sfruttamento dei migranti attraverso un’assurda violenza, riescono a controllare centri di detenzione dove raccolgono i migranti che non possono pagare il prezzo del viaggio in mare. Spesso si rivolgono telefonicamente alle stesse famiglie di provenienza minacciando il congiunto che tengono in ostaggio, torturandolo perché persuada la famiglia a fare un versamento in denaro tramite un Money Transfer. Quando questo non avviene perché la famiglia non dispone della cifra sufficiente, si rischia di essere uccisi. Lamin parla con difficoltà: ha visto uccidere il fratello maggiore per mano degli Asma Boys. “Mentre dormivamo in un cantiere dove lavoravamo, sono arrivati e dopo averci picchiati ci chiedevano con insistenza soldi che non avevamo. Non eravamo stati pagati. Allora hanno puntato una pistola alla tempia di mio fratello maggiore e gli hanno ripetuto la richiesta. All’ennesimo diniego uno di loro ha premuto il grilletto. Mio fratello è stato ucciso a pochi centimetri da me, con un colpo di pistola alla testa. Ma ai nostri aguzzini interessavano i soldi e non si accontentarono di questo. Uno di loro mi si è avvicinato e chiedendomi ancora soldi mi ha ferito con un coltello al fianco – dice sollevando la maglia e mostrando la cicatrice – ma non per punirmi, semplicemente per condannarmi a una morte peggiore, più lenta. Un nero non può rivolgersi a un ospedale e nemmeno ricevere cure mediche. Grazie ad alcuni amici del mio Paese sono riuscito ugualmente a far richiudere la ferita con medicamenti di fortuna e oggi sono qui a raccontare del sangue di mio fratello e di me”.
Carcerieri
Anche Mamadou racconta che in questi campi di prigionia c’erano delle regole rigide da osservare e tra queste che non si doveva mai guardare in faccia i carcerieri che entravano nelle stanze che rigurgitavano esseri umani. Un giorno uno di questi per spaventarli ha sparato con un mitra alcuni colpi in aria ma una pallottola, di rimbalzo dal muro, si è conficcata nella coscia destra. Anche in questo caso, con l’aiuto di alcuni amici è riuscito a richiudere la ferita ma non a eliminare il forte dolore. Per questa ragione, Mamadou viene trasferito in un’area più ristretta dove ci sono quelli non abili al lavoro e che normalmente vengono lasciati morire e ai quali non viene consentito di partire. É solo grazie all’interessamento di Diallo che ha esercitato qualche pressione sul “nome” che gli era stato consegnato all’inizio del viaggio che Mamadou sia riuscito ad essere liberato e a imbarcarsi su un barcone. E così si continua perché ciascuno ha la sua propria storia da raccontare come quelli che si credevano ormai al “sicuro” perché erano saliti sul barcone e ormai navigavano da un’ora e che si sono visti affiancare da un’altra imbarcazione di malfattori, che qui potremmo definire pirati, che sotto la minaccia delle armi si sono portati via timone e motore lasciandoli completamente alla deriva. Sono riusciti a chiedere aiuto e a farsi trarre in salvo da una nave di passaggio. Fino a quando non ci mostrano il video che un loro amico ha ripreso col cellulare. Mostra le torture inflitte a un ragazzo sudanese di religione musulmana sorpreso a pregare. Gli hanno sparato su un piede e gli intimano di non lamentarsi perché ad ogni lamentano gli infliggeranno un’altra punizione. Questo ragazzo stringe i denti ma rischia di morire dissanguato e ogni tanto piange e allora il suo aguzzino accende un accendino e glielo pone sotto il mento per vedere fino a quando resiste. Il torturatore sa che lo stanno filmando perché ogni tanto guarda in direzione dello smartphone e si vanta di quanto sta facendo contro una persona inerme e in sua balia, e quindi prende a schiaffeggiarlo e a ridere chiedendo agli altri attorno a lui, amici e migranti, di fare altrettanto se non vogliono anche loro avere la propria parte. Mamadou ci guarda fisso negli occhi e conclude: “Avete capito adesso cosa succede in Libia? – e poi aggiunge – No, voi non potete capire”.