Vite e volti
Sono scappato a 16 anni, rimanere era pericoloso. L’esercito ti prendeva e non ti lasciava più. Mia madre non ci stava a perdere per la seconda volta un figlio in guerra. Fece tutto lei. Mi affidò ai trafficanti e trovò pace solo quando mi seppe salvo in Europa. Non sa tutto. Del carcere in Libia non le ho mai raccontato. Ne morirebbe. Abel, rifugiato dall’Eritrea
Ho 5 figli. Un marito ammazzato in guerra. Ora siamo qui, insieme, io e loro e anche se il cibo è poco non importa. Siamo tutti vivi. Ho attraversato il deserto, la Libia e il mare con il più piccolo di pochi mesi sulle spalle. Ne ho lasciati tre a mia figlia più grande che se ne è presa cura. Neanche un giorno ho smesso di credere che loro sarebbero cresciuti lontani dalla guerra. Awa, rifugiata dall’Etiopia
Mi sono laureato in matematica a tempo di record. Durante l’Università ero rappresentante degli studenti. Organizzammo una manifestazione per continuare a pubblicare il nostro giornale. I militari ci minacciavano. Ma noi andavamo avanti. Quel giorno eravamo in tanti in piazza. Sentimmo gli spari. Vedemmo i corpi a terra. Mio padre mi prese e mi portò fuori città. E poi i trafficanti. Il viaggio. La Libia. In confronto ai 3 mesi di carcere a Kufra il mare era la libertà, comunque fosse andata. Mark, rifugiato dalla Mauritania
In Libia ho perso tutto, hanno ucciso mia moglie, mi hanno torturato. Non mi importava se fossi morto durante il viaggio in mare, volevo solo andare via da quella terra che per me ha rappresentato l’inferno, dopo l’orrore vissuto nel mio Paese. Abdoullay, rifugiato dalla Guinea Conakry
Tutto è cominciato quando dei militari hanno dato fuoco al mio villaggio nel Darfur. Le mie due sorelle più piccole di 4 e 6 anni sono morte tra le fiamme. Io sono stato costretto ad arruolarmi con i ribelli, mio fratello con l’esercito governativo. Due mesi dopo l’incendio mi trovavo in mezzo a un conflitto con un fucile in mano. Stavamo combattendo contro quelli che mi avevano ordinato di considerare nemici. Mai avrei pensato che quel giorno il nemico sarebbe stato mio fratello maggiore. Siamo rimasti paralizzati a fissarci negli occhi. Uno di fronte all’altro. Non ci siamo detti nulla. Ho lanciato per terra il fucile e ho cominciato a correre, a scappare. Eravamo in 170 sulla barca che dalla Libia ci ha portato in Italia. Molti di noi hanno pagato il biglietto per incontrare la morte. Adam, rifugiato sudanese
Le vite di chi fugge
In queste brevi storie di rifugiati che da oltre 30 anni ascoltiamo al Centro Astalli, il servizio dei Gesuiti per i rifugiati, si coglie la complessità delle vite di chi fugge e si comprende come accogliere non coinvolge solo la sfera del fare, non è solo immaginare uno spazio esistenziale dove chi arriva da un altro Paese possa vivere in pace, ma è principalmente essere per qualcuno e mettersi nei suoi panni. “C’è un’indole del rifiuto che ci accomuna, che induce a non guardare al prossimo come a un fratello da accogliere, ma a lasciarlo fuori dal nostro personale orizzonte di vita, a trasformarlo piuttosto in un concorrente, in un suddito da dominare. Di fronte a questa indole del rifiuto, radicata in ultima analisi nell’egoismo e amplificata da demagogie populistiche, urge un cambio di atteggiamento, per superare l’indifferenza e anteporre ai timori un generoso atteggiamento di accoglienza verso coloro che bussano alle nostre porte”.
Queste parole dette da papa Francesco in occasione dell’accreditamento di alcuni ambasciatori presso la Santa Sede, lo scorso 14 dicembre, ci aiutano ancora meglio a comprendere i vari passaggi del messaggio per la Giornata della Pace 2018, perché ci ricordano che il presupposto dell’accoglienza è innanzitutto personale. Esso richiede non solo un cambio di politiche ma un cambiamento di mentalità e di cuore, un’assunzione di responsabilità prima personale che poi investe i vari ambiti. Ecco, che poi da questo presupposto scaturiscono, anche se non automaticamente, politiche adeguate di accoglienza. E, infatti, “aprire in nostri cuori alla sofferenza altrui non basta”, ci ricorda papa Francesco.
Creare condizioni
Per accogliere occorre creare le condizioni perché le persone arrivino in sicurezza, non debbano affidarsi a trafficanti senza scrupoli, immaginare quindi vie legali di accesso ai vari Paesi, in particolare, per quanto ci riguarda, all’Europa, come in questi anni si è cercato sperimentalmente di fare. Ma per accogliere non si può neppure direttamente (o indirettamente) respingere profughi e migranti verso luoghi dove li aspettano persecuzioni e violenze. Come si può non pensare ai centri di detenzione in Libia dove da anni chi arriva sulle nostre coste racconta condizioni di vita e trattamenti degradanti e inumani che si vanno a sommare all’ingiustizia e alle sofferenze della partenza costretta da conflitti armati e altre forme di violenza organizzata, dalla disperazione di un futuro impossibile da costruire o dal degrado ambientale.
Accogliere poi richiama l’esigenza di bilanciare la preoccupazione per la sicurezza nazionale fuggendo la retorica che enfatizza i rischi per la sicurezza o l’onere dell’accoglienza dei nuovi arrivati. Negli ultimi anni abbiamo cercato di accompagnare i rifugiati con un occhio attento a questo aspetto. E questo lo abbiamo fatto non sottovalutando la paura ma cercando di comprenderne le radici e favorendo la cultura dell’incontro. Questo ci ha aiutato a non dimenticare l’ospitalità e ci ha sempre più convinti che praticandola riceveremo la visita inattesa di costruttori di pace.
Questo lo abbiamo sperimentato a più livelli. Nei servizi di prima accoglienza della mensa di via degli Astalli dove nel cuore di Roma ogni giorno si celebra l’incontro tra rifugiati, provenienti da oltre 60 Paesi, operatori e volontari. Questo incontro è seme di riconciliazione per molte persone che in fuga dalla violenza e spesso in difficoltà sul nostro territorio, trovano un luogo ospitale in cui recuperare un po’ di fiducia, un luogo che diventa punto di riferimento, qualcosa di simile a una casa. Un seme di pace viene gettato per curare le ferite legate alla violenza e a una prima accoglienza a volte inospitale. Lo abbiamo sperimentato con il progetto di ospitalità nelle comunità religiose di Roma e di altre città dove la convivenza tra religiosi e rifugiati, sollecitata da papa Francesco nella sua visita al Centro Astalli nel 2013, aiuta a superare la paura e a ricreare relazioni presupposto fondamentale per una vita integrata e mostra di essere feconda per tutti. Lo sperimentiamo ogni giorno nel nostro servizio per la salute del migrante forzato dove la malattia non solo fisica conseguenza a volte anche di violenze e torture si cura nell’attenzione integrale alle persone accolte e accompagnate. Infine, lo abbiamo sperimentato nel cammino di sensibilizzazione fatto nelle scuole secondarie dove da oltre 15 anni con il progetto: Finestre, nei panni dei rifugiati, attraverso l’incontro tra un rifugiato e classi di ragazzi italiani si cerca di vincere la diffidenza e la paura attraverso la conoscenza. Un seme di pace gettato nel presente perché sia un albero dai rami rigogliosi in futuro, dove possano crescere frutti di dialogo e integrazione.
Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo. Accogliere è esercizio di questa speranza che è di tutti per costruire un mondo più giusto e in pace. Noi del Centro Astalli ne siamo testimoni ogni giorno.