Esistere per resistere

Dalla Giornata Onu per i Diritti del Popolo Palestinese dello scorso 9 dicembre, un dossier per raccontare, per capire, per riflettere su cosa è accaduto in Palestina dal 1947 a oggi. Che soluzioni si prospettano?
Norberto Julini (Consigliere nazionale Pax Christi, presidente dell’associazione “Nova Jerusalem”)

Il 29 novembre del 1947, l’Assemblea Generale adottava la risoluzione 181 nella quale si stabiliva la costituzione di uno Stato ebraico e di uno Stato arabo nel territorio della Palestina mandataria, dando alla città di Gerusalemme lo status di “corpus separatum” sottoposto a regime speciale internazionale. 

Settant’ anni dopo, solo uno dei due Stati previsti dalla Risoluzione ha visto la luce, mentre il popolo palestinese vive in Cisgiordania (2,5 milioni), a Gaza (2 milioni), territori palestinesi occupati da Israele a partire dal 6 giugno 1967, o a Gaza assediata (2 milioni), o in Israele (1,5 milioni) con cittadinanza discriminata, o in 29 campi profughi ospitati dai Paesi arabi confinanti, dove il loro numero supera ormai i 5 milioni di persone, permanentemente sostenuti dall’Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi (UNRWA) e quindi a carico della Comunità internazionale. 

La Giornata di Solidarietà

Quando l’Assemblea Generale dell’ONU decise d’istituire la Giornata mondiale di Solidarietà con il Popolo Palestinese il 2 dicembre 1977, erano trascorsi dieci anni dall’occupazione dell’intera Palestina storica ed erano trascorse due settimane dalla visita a Gerusalemme del presidente egiziano Sadat, che interrompeva l’ostilità trentennale del maggior Stato arabo verso Israele. Lo Stato arabo che solo quattro anni prima aveva dato inizio alla “guerra del Kippur”, da cui Israele si era salvato grazie al poderoso appoggio americano. In quella risoluzione istitutiva della Giornata c’era, già allora, il monito attualissimo pronunciato dal maggior consesso politico mondiale a non barattare i diritti di un popolo espropriato ed esiliato con gli interessi nazionali, in quel caso egiziani, nel contesto mediorientale, coinvolto allora nella “guerra fredda” fra Occidente e Blocco Sovietico. La questione israelo-palestinese chiedeva allora e chiede oggi di essere risolta e non usata per disegni di egemonia. Eppure è ancora così. Anziché applicare il diritto internazionale, rispettare le decine di risoluzioni dell’ONU, attenersi alle Convenzioni di Ginevra in situazioni d’armistizio, che perdura dal 1949, Israele preferisce farsi egemone sugli Stati confinanti: assoggettarli come Egitto e Giordania, disfarli come Siria, tenerli sotto minaccia di nuove aggressioni come il Libano.

Il potere israeliano

Israele condiziona il mondo arabo, alleandosi di fatto con l’Arabia Saudita e i Paesi del Golfo, per offrirsi come maggior Stato militarizzato e unica potenza nucleare del Medio Oriente a sostegno della componente sunnita nell’esaltazione del conflitto religioso con la parte sciita, conflitto strumentale a definire le quote residue di mercato del petrolio nel mondo, vitali per quegli Stati e relative élite del potere. Anche le operazioni militari in Yemen, servono alla contesa e alla definizione del “nemico” individuato nella repubblica islamica dell’Iran. Israele chiede, in cambio, di avere mano libera nel condurre la pulizia etnica di Palestina e il vantaggio di poter collocare sul mercato i prodotti della sua industria bellica ad altissimo contenuto tecnologico, “testati sul campo” di Gaza e Cisgiordania. 

Israele, in aggiunta, tiene aperto per sé un mercato di circa 6 milioni di consumatori palestinesi che vanno riforniti di tutto con prodotti israeliani pagati in larghissima parte dagli aiuti internazionali. L’assoggettamento pressoché totale di quel popolo e delle sue presunte istituzioni politiche ha prodotto fra Israele e ANP accordi di tipo economico e di sicurezza e di controllo poliziesco, per reprimere ogni forma di dissenso e protesta, tali da apparire come “collaborazionismo” con l’occupante. Le più recenti proteste della popolazione prevalentemente giovane e priva di speranza sono, infatti, orientate a denunciare l’inerzia complice di quel che resta della rappresentanza politica palestinese. Ogni tentativo da parte di Fatah e Hamas, i due principali partiti, di trovare intese per iniziative comuni con gli strumenti della resistenza e della trattativa, viene puntualmente sviato da Israele, che tratta separatamente con entrambi secondo l’inossidabile strategia del “divide et impera”. L’apparente governo transitorio palestinese definito con gli accordi di Oslo del 1993, ANP (Autorità Nazionale Palestinese) si regge soltanto su aiuti internazionali, principalmente europei. La transizione infinita, o per dirla con Paola Caridi “lo status quo in progress”, lascia a oggi i palestinesi senza Stato, senza economia, senza tutele a fronte dell’inesausta avanzata colonizzatrice d’Israele. 

L’ANP dovrebbe prenderne atto, insieme al fallimento degli accordi di Oslo, e riaffidare a Israele la cura della popolazione di una terra occupata e defraudata.

Ad ogni occasione di dibattito sulla questione della convivenza fra i due popoli su un’unica terra la domanda ineludibile, posta spesso con scoramento e rassegnazione, concerne il modo di uscire dalla conflittualità permanente, che genera distruzione, esodi, sofferenze e morte. Come sciogliere i nodi della questione israelo-palestinese? Esigendo il rispetto del diritto internazionale e facendo pagare a Israele il prezzo morale e materiale della sua violazione. Ce lo ha ricordato, con esplicita franchezza a Firenze, Avraham Burg, il più autorevole esponente del dissenso israeliano maturato all’interno dello stesso sionismo, Presidente del Parlamento israeliano fino al 2000: “Nessuno ci ha mai chiesto il prezzo per il nostro comportamento nei confronti del popolo palestinese. Con una comunità internazionale così passiva tutto rimarrà così”. Che altro vogliamo ancora sentirci dire, prima di deciderci a esigere il rispetto del diritto internazionale o a pagare il prezzo della sua violazione? Ancora Burg ci ha ricordato che i “traumi” smuovono Israele, ha evocato fatti nuovi che consentano alla maggioranza israeliana che vuole la pace di tornare al governo ed è stato perentorio nel chiedere di apprestare un luogo terzo e una parte terza per una mediazione, in vista della riconciliazione e della convivenza fra i due popoli. Verso quale esito?

Due Stati?

Uno Stato per due popoli, non più due Stati per due popoli. Perché, come hanno ricordato con forza i testimoni palestinesi presenti a Firenze, la soluzione a “due Stati” era morta da tempo e Trump l’ha sepolta. Oggi di fatto esiste già un unico Stato e siamo giunti al passo più impegnativo che è decidere come governarlo: Stato democratico per entrambi i popoli, o stato di apartheid sul modello sudafricano? Neppure la potente voce profetica di papa Francesco riesce a sottrarsi al richiamo di questo progetto ormai liquidato dal procedere del colonialismo d’insediamento in Cisgiordania. L’esultanza dell’attuale governo israeliano per Gerusalemme capitale dello Stato ebraico lascia intendere che, se lasciato libero di agire impunemente, esso opterebbe per uno Stato di apartheid. Ma qui non abbiamo a che fare con un popolo di sopravvissuti al genocidio, facilmente rinchiudibili in “riserve” o “bantustan”. Il popolo palestinese conta per demografia quanto quello israeliano e non vi sono segnali di esodo significativo, anzi la sua tenacia nel restare fra mille difficoltà nella sua terra è una forma di resistenza attiva e non violenta. Esistere per resistere.

Da questo punto di vista la Campagna per il riconoscimento dello Stato di Palestina, serve certamente a ribadire l’esistenza di un diritto e può essere uno dei “traumi” salutari per Israele, richiamati da Burg, pur rimanendo priva di conseguenze immediate riguardo al far cessare l’occupazione: servirebbe da base giuridica per una trattativa fra popoli con uguali diritti verso la soluzione dei nodi rimasti irrisolti: la restituzione, il diritto al ritorno, lo status di Gerusalemme, la cittadinanza. 

È giunto il tempo, qui e adesso e per noi, di chiederci che cosa facciamo per rimuovere gli ostacoli che impediscono l’esercizio di quei diritti. 

Ci siamo sentiti dire dagli stessi israeliani di finire di blandirli e di rompere il muro ideologico creato dalla cattiva coscienza europea che, memore dei frutti avvelenati del suo antisemitismo, consente l’impunità d’Israele. Noi non stiamo facendo il bene né dell’uno, né dell’altro popolo, anzi li incoraggiamo a fare e a vivere peggio, riverberando sull’intero Medio Oriente le onde “sismiche” dello scontro secolare. Israele mantiene con l’Unione Europea il riconoscimento di partner privilegiato negli accordi commerciali, culturali, di ricerca scientifica, di collaborazione accademica, di alleanza militare, mentre si considerano irrilevanti o comunque tollerate le violazioni dei diritti che, in altri casi, sono stati denunciate e sanzionate. L’Europa deve fare i conti con se stessa riguardo ai rapporti con Israele ed è attesa a prove di responsabilità non rinviabili.

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