La bellezza dell’incontro
È tempo di ritrovare la bellezza del prossimo, della reciprocità e delle relazioni.
Spesso ho l’impressione che le nostre comunità cristiane soffrano di un cattolicesimo autoreferenziale. È forse la paura dell’altro, del confronto, dell’eventuale conflitto, che ci tiene apparentemente uniti? “Il conflitto non può essere ignorato o dissimulato. Dev’essere accettato (…) sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo” (Evangelii gaudium, 226-227). Si tratta di innescare processi di comunione, processi di unità reale e profonda, l’unica vera sfida che la storia presente deve accogliere è chiamare per nome ciò che divide per superarlo; ciò che paralizza per pensare insieme nuove vie di dialogo e confronto; ciò che seduce la libertà e anestetizza le nostre coscienze per aprirle alla corresponsabilità. Credere che i conflitti possano mascherare la nostra debolezza è pura illusione! Mi fermerei su due aspetti che ritengo importanti: il dialogo e la preghiera. Due pilastri su cui poter costruire comunione, rinnovare le nostre comunità ogni giorno secondo lo stile dell’ascolto, della conversione, della reale prossimità. Queste due realtà sono intimamente connesse.
La preghiera
Se la preghiera non è luogo di conversione e sequela, deserto e silenzio in cui decidersi per uno stile di comunione, se non ci aiuta a farci carico delle lacerazioni interne alle nostre comunità, come può farsi invocazione a Dio? Come può la preghiera essere cura gli uni degli altri se non è fondata sull’impegno di ciascuno nella familiarità con il Signore per una fraternità che si fa storia e vita concreta? La preghiera è luogo di ascolto dell’altro e di Dio; luogo in cui cadono le nostre maschere, le nostre pretese di autosufficienza e di pre-decidere ciò che è bene a prescindere da un dialogo leale. Luogo in cui il cuore si ritrova disarmato, nudo. Proprio qui ci è consegnata l’istanza di comunione. Non solo le relazioni che ci uniscono ma anche quelle che ci mettono in crisi, che ci fanno soffrire, che lacerano la nostra interiorità, diventano provocazioni che nutrono la nostra sana inquietudine, l’esigente ricerca del vero e del bene. Il dialogo che si fa preghiera benedice la nostra storia, il tutto di noi, anche quando, ci scopriamo ipocriti e nemici. Solo così la preghiera apre nuove vie per tornare all’altro, a Dio, alla Sua voce, al Suo volto. Mi preoccupa molto la fatica di comunicarci esperienze, emozioni, attese, speranze, la vita! Le moderne tecnologie accelerano sempre più i tempi e i modi della comunicazione. Siamo tutti connessi a una rete che sembra tenerci uniti, sempre on line, continuamente esposti nelle grandi piazze globali e virtuali. Quando siamo chiamati a vivere la realtà, a stare l’uno accanto all’altro, quanta distanza tra noi! Quanta solitudine si consuma! Quanta resistenza e quanto rifiuto alla sola possibilità di condividere un pezzo di strada insieme!
Il dialogo
Il nostro mondo “è lacerato dalle guerre e dalla violenza, ferito da un diffuso individualismo che divide gli esseri umani” (Evangelii gaudium, 99). Individualismo generato dalla smania di definire confini visibili e invisibili, baluardi dei moderni nazionalismi, che dividono il mondo e le nostre città creando emarginazione, esclusione, povertà. La complessità della vita sociale, continuamente alimentata da un’insana paura del pluralismo, porta a demarcare confini certi nei quali riconoscere la propria identità personale, sociale e nazionale. Le frontiere geografiche, religiose, sociali e culturali hanno finito col legittimare logiche individualistiche alimentando una politica incapace di prendersi cura del bene comune. Anche le nostre comunità sperimentano al loro interno il sapore amaro dell’odio, della divisione, della calunnia, della diffamazione, della vendetta, delle gelosie, del desiderio di imporre le proprie idee a qualsiasi costo fino a persecuzioni che sembrano una implacabile caccia alle streghe (cfr. Evangelii gaudium, 100). Il Papa continua a sorprenderci con la semplicità delle sue parole e ci ricorda che il “prossimo” non è frutto della nostra immaginazione ma è un interlocutore che ha un volto, una storia, un cuore. L’altro che ci sta davanti è capace di sguardo che interpella, invoca una presenza. È un faccia a faccia dal quale usciamo trasformati, mai identici, mai indenni. È rivelazione di un’umanità che si apre alla reciprocità che ci fa capaci di sintonia, di dono reciproco e che chiama tutti a responsabilità.
In questa storia, complessa e drammatica, non dobbiamo cedere alla tentazione della cultura della guerra, ma credere e testimoniare una comunione che diventi attraente e luminosa (cfr. Evangelii gaudium, 99). Le nostre guerre, in tutte le sue sfumature, non sono altro che lo specchio delle nostre ipocrisie, della nostra incapacità di vedere oltre i muri, oltre i confini. Non lasciamoci rubare l’ideale dell’amore fraterno! (Evangelii gaudium, 101)
Conosco tanti, impegnati anche nel sociale, che sanno consegnarsi nel silenzio della gratuità, che fanno della vicinanza alla gente la ragione stessa della loro vita, che indossano ogni giorno il grembiule del servizio. È la Chiesa che non ha potere, una Chiesa che non conta, che non si difende, non si nasconde dietro falsi moralismi e strategie pastorali, ma riflette l’immagine della Chiesa comunione in continua ricerca delle coordinate evangeliche che la rendono comunità che sa camminare e vuole camminare insieme, costi quel che costi!
L’ultima cena che Gesù ha voluto condividere con i suoi discepoli ci ricorda che la consegna di se stessi è fermento di quell’amore fraterno che nasce dal prendere posto allo stesso tavolo. Tutti costituiti commensali nelle nostre diversità di condizioni, di provenienza, di ruoli e carismi, di ministeri, nelle nostre diversità culturali e di religione. Si spezza il pane per la sola ragione di condividere la vita. Questa esperienza testimonia la prossimità di un Dio che ha consegnato se stesso come pane, per ognuno di noi e per la vita di tutti. Ciascuno, nel condividere il pane, diventa segno di pace, di misericordia per l’altro, chiamata alla comunione, speranza dell’amore fraterno che va oltre i confini della propria comunità. Questa apertura a un bene più grande ci costituisce fratelli, testimoni credibili di vita riconciliata, strumenti di pacificazione.
Se le nostre comunità non si fanno eucaristia vivente rischiano di svuotare di senso e fondamento l’annuncio e la testimonianza.
L’eucaristia è nucleo che ci fa comprendere la legge dell’amore. Gesù non si scandalizza della mondanità dei suoi discepoli: la ricerca del più grande è ricerca di potere, di prestigio, di privilegi, di garanzie e di sicurezza economica. Egli continua a scommettere sul loro essere con lui, sul senso che hanno visto e riconosciuto e che impareranno ad accogliere nel tempo nelle concrete possibilità storiche di divenire testimoni di una comunione che è solo e semplicemente dono.
Egli oggi scommette su di noi! C’è bisogno, dunque, dell’impegno e del contributo di tutti per progettare una cultura della pace che privilegi l’incontro, il dialogo, il confronto, la condivisione delle speranze e dell’inquietudine che fa palpitare il cuore e tiene desta l’attenzione. Progettare in questo senso vuol dire tornare a quella commensalità riconosciuta come dono gratuito nella consapevolezza che essa è anche compito affidato, speranza della storia, vita del mondo. Non lasciamoci rubare questa utopia… perché il mondo creda!