La lunga strada
A che punto siamo?
Il 10 dicembre 2018, la Dichiarazione universale dei diritti umani compie 70 anni. Secondo l’ultimo rapporto annuale di Amnesty International, che fa il punto ogni anno sullo status dei diritti umani nel mondo, è “fuori di dubbio” che ancora oggi questi non possano essere dati per scontati da nessuno di noi. Le controversie sulla libertà di espressione e di manifestazione, le politiche di demonizzazione delle minoranze, gli abusi da parte delle forze dell’ordine e perfino la discriminazione basata sul colore della pelle sono ancora qui, pesanti, impossibili da ignorare, difficili da gestire. In questo momento, in cui alcuni diritti che ci sembravano ormai acquisiti vengono rimessi in discussione – sia in teoria, nelle discussioni tra amici o sui social network, che nella pratica, con provvedimenti legislativi che ci riportano indietro nella storia del diritto – chi lotta per l’abolizione della pena di morte corre il rischio di sentirsi quasi messo da parte nel dibattito corrente sui diritti umani. Se da sempre, nel sentire comune, i diritti di chi si è reso colpevole di reati gravi sembrano relegabili in secondo piano rispetto ai diritti di chi reati non ne ha commessi, in tempi di rinnovato slancio per le varie forme di hate speech indirizzate a migranti, donne, comunità LGBTI e altre categorie sensibili, chi si occupa di pena di morte può sentirsi in una “nicchia” più stretta del solito – soprattutto in paesi che non fanno più ricorso alla pena di morte, come l’Italia.
Impegnarsi per l’abolizione della pena di morte oggi può sembrare, insomma, un lusso per “fondamentalisti” dei diritti umani: “Con tutte le violazioni subìte quotidianamente da chi reati non ne ha commessi, è il caso di dedicare tutte queste energie ai diritti dei criminali?”, ci viene chiesto a volte.
Il diritto alla vita
La lotta contro la pena capitale è diversa dalla lotta contro altre violazioni dei diritti umani per un motivo particolare: in ogni istante del tuo impegno non puoi mai dimenticare che le persone che subiscono “l’estrema violazione dei diritti umani” sono in genere colpevoli di reati. In alcuni casi si tratta proprio dei “peggiori tra peggiori” che la società cerca di isolare dagli altri cittadini. In diversi ordinamenti giuridici, con differenti standard processuali (in alcuni casi ancora abominevoli) e per reati di varia gravità, gli individui giudicati da uno stato “meritevoli” della pena di morte sono, nel migliore dei casi, persone sospettate di aver commesso un reato considerato molto grave. La contraddizione (solo immaginaria) che esiste tra “meritare una pena” e “essere titolari di un diritto”, l’idea che il diritto alla vita si possa perdere, ha radici emotive profonde in molti sostenitori della pena capitale e, a volte per smuovere questa convinzione, non basta elencare i tanti motivi “pratici” per cui la pena di morte è iniqua: perché non ha effetto deterrente, innanzitutto, a differenza di quanto affermano alcuni politici durante le campagne elettorali in alcuni paesi del mondo; perché è un provvedimento spesso costosissimo, più di tutte le pene detentive; perché non esiste un metodo umano per mettere a morte un individuo (basti pensare alle lunghe agonie di alcuni condannati a morte statunitensi messi a morte mediante iniezione letale, alle condizioni di detenzione a cui sono sottoposti i prigionieri nei bracci della morte di tutto il mondo.
I numeri
Può avere senso, allora, chiedersi in che direzione stia andando l’uso della pena di morte nel mondo e in che condizioni si trovi oggi questo “muro” di consenso che ancora difende quello che, a tutti gli effetti, è un omicidio premeditato di stato.
Dal punto di vista dei paesi abolizionisti e mantenitori, il trend è chiaro: all’inizio del secolo scorso, solo tre nazioni avevano abolito la pena di morte per tutti i crimini. Oggi, oltre due terzi dei paesi del mondo l’hanno abolita per legge o nella pratica. Raramente capita che uno stato che ha abolito la pena di morte la reintroduca. Ci sono anche altri segnali positivi, che arrivano da diverse parti del mondo: l’Europa è una zona ormai virtualmente libera dalla pena di morte (fatta eccezione per la Bielorussia), e, negli ultimi anni, l’Unione europea si è impegnata nella promozione a livello mondiale dell’abolizione della pena capitale. Se in Medio Oriente e Africa del Nord, ancora una volta, Iran, Arabia Saudita e Iraq sono stati i primi tre paesi per numero di esecuzioni nel 2017 (nonostante si sia registrata una generale riduzione dell’uso della pena di morte nella regione), nell’Africa subsahariana sono state registrate esecuzioni in soli due paesi, Somalia e Sudan del Sud; in confronto ai cinque del 2016, il numero delle condanne a morte in quest’area è diminuito e sviluppi legislativi significativi hanno rafforzato la posizione della regione sul fronte abolizionista. Negli Stati Uniti, che per il nono anno consecutivo restano l’unico paese delle Americhe (e l’unico membro del G8 oltre al Giappone) ad aver eseguito sentenze capitali, parte dell’opinione pubblica e diverse autorità politiche hanno ormai acquisito una consapevolezza contraria alla pena capitale. Nel 2017 c’è stato un lieve aumento di esecuzioni rispetto al 2016 ma, per il secondo anno consecutivo, (e per la seconda volta dal 2006), gli Stati Uniti d’America non figurano tra i primi cinque paesi al mondo per numero di esecuzioni, e al loro interno sono 19 gli stati che hanno abolito la pena capitale (mentre 11 dei 31 stati ancora mantenitori non mettono a morte persone da almeno 10 anni).
Un altro segnale incoraggiante viene dal crescente livello di comunicazione e collaborazione tra le organizzazioni abolizioniste, come dimostrato dai Congressi mondiali contro la pena di morte, dal lavoro della Coalizione mondiale contro la pena di morte (World Coalition Against Death Penalty) e dalla formazione di coalizioni nazionali in diverse regioni del mondo, tra cui la Rete d’azione contro la pena di morte (Anti-Death Penalty Action Network) in Asia. Esistono, infine, diversi standard internazionali (tra cui l’adozione di trattati abolizionisti vincolanti e la loro ratifica da parte di un crescente numero di paesi), l’azione di meccanismi delle Nazioni Unite come la moratoria universale sulle esecuzioni (votata ogni due anni dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite: il 19 dicembre 2016 è stata approvata con 117 paesi favorevoli, 40 contrari e 31 astenuti ed è in programma per un nuovo voto a fine 2018) e le conclusioni e raccomandazioni di tribunali internazionali e organismi di controllo dei trattati.
Questa tendenza riflette una crescente coscienza universale che chiede una pena efficace e alternativa alla pena di morte, riconoscendo come inutile una punizione che non protegge la società dal crimine e in più la macchia di un atto disumano in nome della giustizia.
Se i dati globali ci invitano a sperare che i più giovani di noi potranno un giorno vedere un mondo libero dalla pena di morte, in alcuni paesi questa viene ancora applicata in maniera estensiva: in Cina, il numero di esecuzioni è altissimo e coperto dal segreto di Stato, per cui dal 2009 Amnesty International non fornisce più la stima del numero di persone messe a morte, che non potrebbe essere accurata; ancora nel 2017 sono state emesse condanne a morte o portate a termine esecuzioni per reati come traffico di droga (in diversi paesi di Asia, Medio Oriente e Africa del Nord), corruzione (Cina, Vietnam), adulterio (Arabia Saudita), blasfemia (Iran, Pakistan).
Nei giorni in cui questo articolo è stato scritto, è arrivata la notizia dell’esecuzione di Zeinab Sekaanvand, una sposa-bambina curda messa a morte in Iran all’età di 24 anni per un reato che avrebbe commesso a 17 anni, di cui è stata riconosciuta colpevole a valle di un processo molto irregolare, una confessione ritrattata e la denuncia di percosse subite durante la detenzione da agenti di polizia, per costringerla a rilasciare una deposizione. Diritti dei minorenni, diritti delle donne, diritti dei detenuti, diritto a un equo processo, infine diritto alla vita: un solo caso, un universo di diritti violati, in spregio al diritto internazionale.
La battaglia per l’abolizione della pena di morte è connessa alla promozione di tanti altri diritti umani, non viaggia da sola. La strada da percorrere non è breve, ma nemmeno lunghissima: se non ci stancheremo di parlare di abolizione della pena di morte anche quando “tutto il resto” sembra prendere il sopravvento nel dibattito mondiale sui diritti umani, il risultato che ci aspetta – concreto e netto come lo vogliamo, pena di morte mai – arriverà prima di quanto ci aspettiamo.