I desaparecidos del Sahara
Ma cosa accade oltremare?
I migranti sono volti, persone, con storie laceranti che lasciano intravedere le gravi violazioni di diritti umani. In Libia, per esempio.
Com’è possibile movimentare ogni giorno migliaia di persone, percorrere impossibili rotte desertiche, attraversare confini polverosi, raccogliere e trasferire denaro, fornire carburante alle centinaia di mezzi di trasporto, ottenere i lasciapassare, governare i centri di raccolta e poi gestire la flotta per il viaggio via mare – per molti l’ultima tappa in ogni senso – e tutto questo senza dare nell’occhio?
“Una filiera del genere non può passare inosservata. E non può prosperare senza il consenso e spesso la complicità di chi oggi afferma di voler porre fine al traffico di migranti”.
L’investigatore Onu che parla sotto anonimato si fa precedere da un rapporto di 299 pagine inviato al Consiglio di sicurezza. Eppure non è di questo che si discute nei consessi internazionali. Le vite a perdere non valgono un barile del petrolio che le potenze regionali e le assetate economie avanzate si contendono. Ma loro, i migranti, in un modo o nell’altro tornano a bussare alle nostre coscienze. Da vivi. E anche da morti.
Alle volte li restituisce il mare. Altre vengono scoperti per caso in una buca. Altre ancora giacciono, semisepolti dalla sabbia, spolpati dalle iene. Un migrante ha un solo modo per vivere, e molti per morire. Se sopravvivi al Sahara, se scampi ai lager in Libia, se alle spalle ti sei lasciato il Mediterraneo, solo allora è fatta.
“Mi chiamo Badewbo, e non mi voglio lamentare. Ci sono dei miei amici che qui, in salvo, non ci sono mai arrivati. Quindi, alla fine, si può dire che sono stato fortunato”. Testimonianze così non hanno niente di inedito per chi ogni giorno ascolta le voci dei superstiti. “Certo che giocare sarebbe stato più facile. Ma noi – ha raccontato Badewbo agli operatori di ‘Save The Children’ una volta sbarcato in Sicilia – eravamo poveri, e quando si è presentata l’occasione di farmi andare in Libia, i miei genitori hanno stretto gli occhi per non far uscire le lacrime”. E gli hanno detto, “va bene”.
Le colonne di migranti che risalgono il deserto non sanno nulla delle mutevoli tempeste di sabbia nei fortini della politica. I fuoristrada dell’Oim, l‘Organizzazione mondiale delle migrazioni Onu, in Niger hanno fatto in tempo, poche settimane fa, a dare da bere a una dozzina di subsahariani che da otto giorni non mangiavano e nelle taniche non avevano più neanche un goccio. I passeur li avevano abbandonati nella terra di nessuno al limitare tra Libia, Tunisia e Niger. Ne sappiamo sempre meno di quanto invece ci occorra. Nel 2017 vi furono tre macabri ritrovamenti ravvicinati: i resti di 39 adulti e 5 bambini l’1 giugno; 18 adulti il 14 giugno; 14 adulti e 20 bambini due giorni dopo. Negli ultimi mesi i migranti soccorsi nelle paludi di sabbia sono stati migliaia. In Niger, in Ciad, nel Mali, arrivano gli eserciti europei. Ma non per cercare i desaparecidos del Sahara.
I loro volti, però, non sono numeri. Occorre ascoltarli: “Mi chiamo Efrem, vengo dall’Eritrea e l’Italia non è il posto dove voglio stare. Devo raggiungere i miei fratelli più grandi in nord Europa, come ve lo devo dire? Invece sono fermo qui, a Roma, in un centro per minori. Ma io devo partire, non mi posso fermare. Sono scappato dal servizio militare obbligatorio, ho attraversato l’Etiopia e la Libia, tutto per arrivare dalla mia famiglia. Come ve lo devo dire? Devo mentire? Se non riuscite a mandarmi via come minorenne, vi dico che sono maggiorenne. Oppure scappo da qui”.
Efren è vivo. Ma tanti altri non ce l’hanno fatta. Di loro non sapremo mai nulla. Ed è il silenzio il miglior alleato dei trafficanti di carne umana. Il silenzio e l’indifferenza.
A Zuara, sulla costa libica che risale verso la Tunisia, avevo visto l’inferno a poche bracciate di mare dalla Fortezza Europa. Esseri umani in trappole senza scampo. È qui che Rhoda è morta dopo le prime notti in balia dei capricci degli scafisti. Dicono si sia ammazzata mentre tutti dormivano. Il blasfemo jihad degli stupratori libici si compie ogni sera. Nei centri di detenzione governativi libici sono stati computati circa 6mila migranti, ma l’Onu ha stimato la presenza di circa 600 mila stranieri in tutto il paese. Gli aguzzini molto spesso indossano una divisa appartenente a una delle forze armate finanziate anche dall’Italia e dall’Europa. “I perpetratori – assicura il segretario generale Antonio Guterres in un rapporto circostanziato – sono funzionari statali, gruppi armati, contrabbandieri, trafficanti e bande criminali”. Le condizioni dei prigionieri non hanno bisogno di commenti. Quelli visitati dai funzionari delle Nazioni Unite “erano malnutriti e avevano limitato o nessun accesso alle cure mediche”.
Non se la passano meglio i cittadini libici, esposti a ogni genere di rischio. Dagli omicidi politici alle detenzioni arbitrarie a causa del perdurante conflitto. Compreso “il reclutamento e l’uso di bambini da parte di gruppi armati, così come la loro detenzione – denuncia ancora Antionio Guterres – sulla base della loro presunta o effettiva associazione con altre parti in conflitto”.
Nel faldone della Corte penale dell’Aja ci sono nomi che scottano. Come quello di Fathi al-Far, comandante della brigata al-Nasr, alleato forte del premier Serraj, riconosciuto dalla comunità internazionale. L’ex colonnello dell’esercito di Gheddafi, “ha aperto un centro di detenzione a Zawiyah”, sulla costa occidentale a metà strada tra Tripoli e Zuara. Il gruppo di investigatori “ha ricevuto informazioni secondo cui il centro di detenzione è usato per vendere i migranti ai contrabbandieri”. Sotto gli occhi dei fedelissimi di Serraj. Non è un caso che sempre a Zawiyah, il capo della Libyan Petroleum Facilities Guard, milizia che dovrebbe proteggere i siti di estrazione dell’oro nero, “è coinvolto nell’approvvigionamento di carburante per i trafficanti”. Non è che un solo esempio delle molte ambiguità libiche.
L’Europa paga, ma non può far finta di non sapere.