SERVIZIO PUBBLICO

Vince la TV del vuoto…

Quello che accade in casa Rai interessa tutti. Perché in ballo è il pluralismo dell'informazione, l'autonomia e la qualità del servizio pubblico.
Una questione di democrazia, insomma, che riguarda ogni persona consapevole.
Roberto Natale

“Rai in crisi”, “Rai nella bufera”, “Tempesta su viale Mazzini”. Titoli che vorrebbero suscitare allarme, ma che sui quotidiani italiani sono ormai ricorrenti quanto i servizi sportivi del lunedì. La permanente fibrillazione rischia di indurre al disinteresse: nelle polemiche continue si può finire per perdere l'orientamento e pensare che si tratti delle beghe interne a un pezzo del sistema politico che suscita grandi appetiti e dunque grandi risse. Non è così. In ballo c'è davvero la qualità della nostra democrazia. Ma per esserne convinti bisogna provare a individuare il filo che lega le liti di ogni giorno con i movimenti di fondo del sistema televisivo.

Le nomine
Partiamo dalle poltrone. Sono state la causa dell'ultima crisi al vertice della Rai, quella che ai primi di maggio ha portato alle dimissioni di Lucia Annunziata. Le decisioni prese in tutta fretta dal Direttore Generale e dai quattro Consiglieri di amministrazione indicano un ulteriore scadimento – persino rispetto ai livelli già toccati da qualche tempo – del grado di autonomia editoriale e politica della Rai.
In posizioni-chiave arrivano dirigenti che come gemma del proprio curriculum possono esibire essenzialmente la contiguità col “capo”: Deborah Bergamini, che ora sarà a capo del settore “strategie”, è entrata due anni fa direttamente dallo staff di Palazzo Chigi. Alla guida delle “risorse tv” va un dirigente, Alessio Gorla, che fino a poco tempo fa era in Mediaset. Vengono assunti giornalisti che fin qui si sono dedicati alle campagne contro la Rai: Gigi Moncalvo, direttore della “Padania”, avrà un programma su RaiDue (ma Santoro non ha potuto più lavorare perché “la sua è un'informazione faziosa, non idonea al servizio pubblico”).

Le censure
Ma la vicenda delle nomine ha funzionato da detonatore perché la pressione era già salita al massimo in conseguenza delle scelte fatte sui programmi: la vergognosa e ridicola differita del concerto del Primo Maggio; lo stop imposto alla replica di una trasmissione di Lucarelli sulla mafia, in nome della par condicio; al contrario la messa in onda senza problemi dell'intervista al serial killer Donato Bilancia (quando non c'è di mezzo direttamente la politica il Direttore Generale tende a distrarsi).
E poi ancora – dopo le dimissioni di Lucia Annunziata – gli attacchi al Tg3 per aver mandato in onda l'intervista alla vedova di un carabiniere ucciso a Nassiriya. Dare le informazioni causa problemi, mentre non è un problema tacere le notizie (il tg1 che, unico fra i tg italiani, sceglie di non menzionare le parole della donna sul fatto che il marito aveva saputo delle torture nel carcere iracheno).
(c) Olympia E il silenzio-stampa ottenuto quasi completamente dal Presidente del Consiglio per settimane sulla vicenda degli ostaggi italiani. E le pressioni nell'informazione sulla guerra irachena: le inviate Rai contestate in diretta da ministri ed esponenti della maggioranza perché parlano di guerra e di truppe di occupazione.
Mentre il ministro Gasparri elegantemente definisce Gruber e Santoro, dopo la loro candidatura alle Europee, “calcare che va scostato dalla Rai”. Nomine e contenuti sono i due lati della stessa medaglia: la medaglia del controllo sempre più ossessivo della Rai, chiamata a militarizzarsi ancora di più per ricostruire il rapporto di fiducia tra il governo e l'opinione pubblica.

La legge Gasparri
Il servizio pubblico italiano non è mai stato un modello di autonomia dalla politica: non abbiamo alle spalle un'età dell'oro da poter rimpiangere. E tuttavia mai si era dovuto assistere a una pressione così forte come quella iniziata con l'“editto bulgaro” di Berlusconi, che chiese e ottenne la cacciata di Biagi, Santoro e Luttazzi. Una pressione che ora la legge Gasparri ha elevato a sistema.
È una legge pericolosa in generale per il pluralismo dell'informazione: consente infatti a Mediaset, al monopolio privato, di crescere ancora molto, di avere ancora più pubblicità a danno di tutte le altre aree dell'editoria. Per questo la Gasparri aveva fatto il pieno dei dissensi: i rappresentanti dell'editoria grande e piccola, i proprietari dei quotidiani pure politicamente schierati col centro-destra e le voci dei periodici cattolici e laici. Non è servito; come non è bastato che il Presidente della Repubblica rimandasse alle Camere la prima versione approvata.
È una legge pericolosa in particolare per il servizio pubblico.
È pericolosa per la sua autonomia
, perché il ruolo dei partiti e del governo diventerà persino più importante di quello che è oggi. Nel Consiglio di Amministrazione prossimo – dice la legge – ci saranno nove membri. Sette saranno nominati dai partiti in Commissione di Vigilanza: quattro per la maggioranza, tre per le opposizioni. Ma gli ultimi due saranno scelti dal Ministro dell'Economia: uno dei due diventerà il Presidente, e dovrà avere il voto dei due terzi della Commissione; l'altro (decisivo per fare la maggioranza di 5 su 9) sarà nominato semplicemente dal ministro. Così avremo un servizio pubblico ancor più sotto lo stretto controllo del governo. Del governo di centrodestra oggi, del governo di centro sinistra domani o dopodomani. Il problema non è il colore politico del Ministro, ma il fatto che un servizio pubblico non può essere così scopertamente il portavoce del governo in carica.
La legge Gasparri mette a rischio anche le dimensioni del servizio pubblico. Non perché essa apra al capitale privato: la legge parla di una Rai public company, nella quale ogni privato può comprare non più dell'1% delle azioni.
Questo potrebbe non essere un grande rischio: in certe condizioni, potrebbe offrire perfino l'opportunità per aprire a una partecipazione “sociale”. Il pericolo invece è in una norma che permette di vendere parti della Rai, cioè canali tv o radio, a partire dal gennaio 2006. Basterà il parere favorevole del Ministro dell'Economia (che magari avrà bisogno di risorse per finanziare la diminuzione delle tasse) e la Rai potrà essere ridimensionata. Nel suo messaggio alle Camere del luglio 2002, il Presidente della Repubblica aveva chiesto un “ruolo centrale” per il servizio pubblico. La risposta della legge Gasparri va in senso contrario: il nuovo centro del sistema televisivo è nel monopolio privato.

Vento nei capelli
Qui arriviamo però al nodo cruciale del problema. Perché le dimensioni del servizio pubblico possono essere un valore da difendere per tutti (e non solo per i suoi dipendenti) unicamente a patto che il servizio pubblico mostri una diversità per la quale vale la pena di salvaguardarlo. È su questo terreno, più ancora che su quello della faziosità politica, che la Rai di questi anni si mostra maggiormente scoperta, alle prese com'è con una profonda crisi di identità e con una crescente omologazione dell'offerta.
Fare alti ascolti con “L'isola dei famosi” è un successo solo apparente: salgono gli indici Auditel, ma si sta dicendo ai cittadini italiani che il modello Mediaset ha vinto. È la tv del vuoto, il modello di tv “vento nei capelli” (la definizione è in un bel documento Cei di un paio di anni fa): quella che ha come valori-cardine ricchezza, bellezza e fama.
È a questo livello il “tarlo” più profondo che sta rodendo il servizio pubblico: al livello dei valori. Preoccupati di non farci accusare, nel servizio pubblico, di un uso pedagogico della tv, abbiamo finito all'opposto per lasciar campo libero alla pedagogia (non esplicita, ma proprio per questo più efficace) che esercitano i programmi di chirurgia estetica, le trasmissioni di pettegolezzi sulle star, le liti familiari (vere o costruite poco importa) che gonfiano ore intere del palinsesto quotidiano.
Adriano Pappalardo è diventato maestro tv di vita e di pensiero, mentre Carlo Urbani è morto senza che l'Italia ne conoscesse il volto e le azioni. E su questi temi non ci possiamo illuderci che il problema sia Berlusconi: anche quando la situazione politica sarà diversa, non si risolverà automaticamente il problema dell'identità del servizio pubblico.
Paghiamo anni nei quali in troppi hanno pensato che il servizio pubblico fosse categoria vecchia, burocratica, assistenzialistica; che ogni sua diversità fosse da bandire in nome dei valori “spontaneamente” vincenti sul mercato. In campo televisivo questo ha significato la scopiazzatura dei programmi di successo delle tv private. Ma questa “aria del tempo” non ha soffiato solo sugli schermi tv: ha toccato pesantemente la scuola, la sanità, l'ambiente, i beni culturali.
E ha esercitato il suo fascino anche su alcune aree del centro-sinistra. Il discorso sulla difesa e il rilancio della Rai è da inserire in un questo quadro: ci interessa una tv che voglia parlare non solo ai consumatori, ma trattare gli spettatori da cittadini consapevoli?

La voglia di pubblico
Nonostante tutte le lottizzazioni, le occupazioni, le polemiche, è ancora forte la domanda di un servizio pubblico diverso. Ai primi di maggio è uscito sul “Corriere della Sera” un sondaggio di Renato Mannheimer, per certi versi sorprendente: nonostante il pessimo spettacolo che spesso la Rai dà di sé, il no alla sua privatizzazione è largamente maggioritario.
Il servizio pubblico continua ad essere percepito come un elemento essenziale dell'identità nazionale e della coesione sociale, e netta è la richiesta che il governo eviti le ingerenze attuali. Sono percezioni e domande che vengono non solo – dice il sondaggio – dai cittadini del centro-sinistra, ma anche da molti elettori dell'attuale maggioranza. Insomma, una Rai diversa da Mediaset e non al laccio del governo di turno (nemmeno di un possibile futuro governo del centro sinistra, per esser chiari) interessa ancora gran parte dei cittadini italiani.
Ma sappiamo benissimo, dentro la Rai, che questa riforma non potrà maturare solo o principalmente dall'interno. Il rilancio della Rai è possibile soltanto se diventa l'obiettivo di un movimento non timoroso di affrontare la questione dei valori, che non abbia paura di sentirsi definire “poco moderno” solo perché reputa che la modernità non coincida necessariamente con la telecamera piazzata nella stanza da letto.

Segretario Usigrai (Sindacato Giornalisti Rai)

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