ALTERNATIVE

Partiamo dalla strada

Una televisione per tutti e fatta da tutti.
L'esperienze delle street tv e la partecipazione delle città alla costruzione dell'informazione.
Luciana Castellina

“Non demonizzare la TV, falla”: lo slogan, all'apparenza utopico,ha avuto fortuna e – contro ogni aspettativa – un significativo principio di attuazione. Naturalmente soprattutto in Italia, visto che nel nostro Paese la condizione televisiva rendeva più urgente una reazione.
E così si sono attivati i primi gruppi di operatori che, usando delle piccole e ormai abbordabili videocamerine, hanno cominciato a filmare la realtà censurata dalle grandi reti, private e pubbliche, in particolare le manifestazioni di protesta, dando vita a Indimedia, una corposa nebulosa animata da centinaia (ma forse sono ormai migliaia) di media-attivisti. Ne sono nati documentari di straordinario interesse che hanno poi trovato canali di trasmissione presso circoli e in occasione di ulteriori manifestazioni. E anche collegamenti internazionali, perché anche altrove Indimedia si è diffusa. Qualche volta si è riusciti anche a usare il satellite, come è noto, per arrivare direttamente sugli schermi di chi possedeva la parabola e riusciva nella non facile operazione di acchiappare il cana le. È accaduto per il Forum sociale europeo di Firenze, poi per altre manifestazioni pacifiste. Nowartv trasmise per una intera settimana, la prima della guerra in Iraq.

La Tv di strada
Mentre procedevano i tentativi – per ora nessuno andato a buon fine – di creare una vera e propria stabile emittente alternativa via satellite, sono andate nascendo le TV di strada, un vero salto di qualità, perché si è trattato di vere, anche se microscopiche, emittenti. La loro nascita è dovuta alla scoperta che con pochi soldi (meno di 1000 euro) era possibile attrezzare il proprio televisore casalingo per consentirgli di trasmettere oltre che di ricevere. Un'operazione che dunque si poteva fare anche nella cucina di casa propria, non legale – perché per trasmettere in Italia occorre una licenza (e si sa chi ce l'ha…) – ma non illegittima, perché se si entra nel cono d'ombra che resta fra una licenza e un'altra non si pestano i piedi a nessuno. In poco più di un anno di “street tv” ne sono così nate 158 (ultimo ma certo non definitivo censimento).
Certo l'audience è ristretta perché ognuna riesce a raggiungere il proprio caseggiato, al massimo la strada, il blocco di edifici di un condominio. Ma l'importante è avere finalmente ribaltato il rapporto con il mezzo televisivo e dimostrato che si può esserne strumenti attivi e non solo passivi. La per ora circoscritta esperienza ha avuto il valore della rottura di un tabù, analoga a quella verificatasi quando per la prima volta si sottrasse al monopolio degli scriba la scrittura e tutti scoprirono che potevano scrivere da soli.

Il re è nudo
Per trent'anni la TV è stata il nostro scriba: il moderno mezzo di comunicazione poteva essere usato solo da pochi, da chi deteneva il potere e le conoscenze tecniche necessarie a utilizzarlo. Ora il re è nudo: tutti possono fare altrettanto e se non possono ancora generalizzare la comunicazione è solo perché gli attuali rapporti sociali di produzione, vale a dire la struttura del sistema proprietario, lo impedisce. Come sempre la tecnica apre le porte, il capitale le richiude…
Se questo è il valore simbolico delle TV di strada, assai grande è il valore dell'esperienza pratica che hanno prodotto: la gente – quella del caseggiato, del condominio, della strada – ha scoperto quanto è bello e importante andare davanti a un microfono e finalmente parlare anziché essere condannati sempre ad ascoltare. Quanto senso dà alla propria vita riappropriarsi della rappresentazione di sé, anziché essere condannati a essere rappresentati (e distorti o alienati ) da altri.
Si dirà che l'esperienza porta con sé molti rischi. È vero. E per questo non basta, infatti, allestire una TV di strada, anche se questo è un inizio necessario. Il primo rischio è la TV di campanile, la chiusura nel microcosmo del proprio villaggio, peggio, del proprio caseggiato. Per questo si sta discutendo e progettando una comunicazione fra le Tv di strada, affinché si realizzi un vero scambio e non il ripiegamento su sé stessi, nel quadro di una filosofia iperlocalistica e iperidentitaria. Il modo di farlo è la comunicazione via large band, poco costosa e rapidissima anche se le immagini non risulteranno per ora perfette. Ogni Tv di strada dovrebbe versare quanto produce in una sorta di jukebox dal quale ciascuna dovrebbe poter poi attingere. Non dunque mille campanili, ma una rete. Fatta di nodi ognuno dei quali è emittente e insieme ricevente. E poi si potrebbe fare il salto e usare il satellite, associandosi in molti per usarlo collettivamente.
Il secondo rischio è di dar vita a trasmissioni che alla lunga divengono ripetitive, folte di racconti che risvegliano forse curiosità locali, ma scarsissimo interesse generale. A un simile rischio, reale, può portare riparo la comunicazione attraverso la rete cui prima accennavo. Ma non credo si debba temere in questa fase un eccessivo localismo. Il pericolo più grave non è questo, è la passività, lo svuotamento della cittadinanza che ne deriva, la perdita della qualità di soggetto attivo che ne è alla base.
Riattivare la soggettività è oggi possibile solo ricostruendo una democrazia di prossimità, a partire, dunque, dalla comunità di base, in rapporto alla quale prendono senso i valori comuni, il senso di responsabilità, che rende possibile la convivenza. Pensare sia possibile ricreare tali valori comuni, il senso comune, rimanendo indifferenti all'ingombrante ruolo che nella nostra società giocano i media, sarebbe un errore fatale. Purtroppo già largamente commesso.
Bisogna infatti prendere atto del fatto che un tempo la coesione, il dialogo, la reciproca comunicazione, avvenivano attraverso la vita associativa promossa dai partiti, dalle associazioni, dalle usanze del vicinato. Oggi non è più così; e gli stessi sindaci non riescono più a comunicare con i propri cittadini, neppure nei piccoli centri.

Per una vera democrazia
È anche per questo che l'esperienza delle TV di strada ha finalmente richiamato l'attenzione di un certo numero di sindaci (i più sensibili). Di qui l'ipotesi di una assunzione, da parte delle istituzioni locali, dell'esperienza delle emittenti di strada. Nell'intrico di leggi e regolamenti che intrappola la vita degli enti locali si sono scovate risorse legali che consentono ai Comuni di legittimare l'esperienza, di renderla più stabile e anche più tecnicamente potente, dunque capace di raggiungere una audience più larga.
Questa è la scommessa in cui una buona parte di quelli che un anno fa circa tentarono il progetto di Nowartv sono ora impegnati: formare, tecnicamente e professionalmente, i gruppi che dovranno animare l'esperienza, spingere i sindaci a decidere, creare le condizioni per la messa in rete dei rispettivi progetti. Si tratta di un piano assai più lento, e di impatto assai meno diretto, di quello che inizialmente Nowartv si era proposto, quando pensava alla costruzione di una TV alternativa centrale.
È però un progetto di lungo termine forse più interessante, perché fondato sulla attivazione di una miriade di soggetti. Alcuni sono già partiti:il comune di Peccioli, per esempio, e quello di Lastra a Signa. Ambedue in Toscana. Ma l'esempio, appena passata la scadenza elettorale, potrebbe moltiplicarsi anche in altre regioni.
Non si tratta di utopia irrealizzabile. Le Tv comunitarie – locali ma non commerciali e neppure istituzionali, bensì affidate alla società civile – esistono già, regolamentate e finanziate dallo Stato, in molti Paesi. In Belgio sono una realtà tanto che, se, venisse soppressa, la gente, scenderebbe in strada a fare le barricate. In Olanda il settore pubblico è rappresentato proprio da questo tipo di emittenti. Ma persino negli Stati uniti le tv comunitarie sono un'esperienza preziosa e ora comunicano anche via satellite, avendo strappato una norma che impone di riservare a iniziative di questo tipo una quota almeno della trasmissione spaziale. Ma a Porto Alegre abbiamo scoperto quante comunità rurali sperdute nelle Ande o nelle campagne dell'Asia si sono dotate di radio, generalmente gestite dalle donne, che sono quelle che più hanno a cuore la comunità locale, che più sentono il bisogno di appropriarsi di un mezzo di comunicazione che garantisca la rottura dell'isolamento.
Perché da noi dobbiamo continuare a divincolarci fra la tv pubblica e quella privata e se si cerca di democratizzare si va a finire all'ipotesi di un terzo polo, e ci si divide se debba esser gestito da Tronchetti Provera oppure da Cecchi Gori? Il terzo polo debbono essere le tv comunitarie, per rimettere con i piedi per terra la nostra democrazia. Ed è dovere dello Stato garan tire loro spazi e risorse. Si tratta di un servizio pubblico essenziale e occorre garantirlo come si garantisce l'acqua e la luce.
Perché questo avvenga bisogna che vertici politici, e anche militanti dei movimenti, prendano coscienza che il diritto all'informazione è importante, ma assai più importante e ricco è il diritto alla comunicazione. Che naturalmente non è la povera e stupida interattività di cui così spesso si parla e che consisterebbe nel potere conferito ai telespettatori di dire sì o no a quanto proposto dall'alto, oppure di acquistare un tappeto o un asciugacapelli alla tv. Un'informazione anche corretta e parziale, che comunque non c'è, non basterebbe a risolvere il problema.
Le ipotesi su cui chi si impegna nella costruzione di media alternativi sta lavorando sono un modo per uscire dalla pura denuncia e dalla passività che a questa consegue quando non si va oltre. Ma sono anche un modo di concepire diversamente la battaglia sacrosanta per salvaguardare il servizio pubblico televisivo contro la mannaia delle privatizzazioni, cui purtroppo collabora attivamente anche la Commissione dell'Unione europea in nome della filosofia iperliberista che ne ispira gli atti. Il servizio pubblico non è solo (è anche, naturalmente) una Rai decente, è il potere conferito alla società civile di usare i media per esprimersi e comunicare.
Qualsiasi progetto di riforma dovrebbe tenerne conto.

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