Immagini di guerra
Il mondo alla rovescia. L'Onu lancia il decennale della pace e della nonviolenza per inaugurare il Terzo Millennio, e ciò che si impone prepotentemente come la struttura portante della terra è la guerra. La dimostrazione di questa rivoluzione infausta delle cose, è il fatto che la guerra non solo ha cominciato, gradualmente, a rappresentare l'apertura di ogni giornale, di ogni telegiornale, di ogni agenzia informativa, ma addirittura è diventata il buongiorno della mattina. Come in un grande show i nostri orecchi si spalancano, sopra il cappuccino, per raccogliere l'ultima notizia dell'attentato iracheno o l'ultimo eccidio di soldati americani o la nuova incursione nella caserma dei carabinieri a Nassiriya. Per non parlare degli ostaggi, strattonati da ogni dove.
E poi arriva puntuale lo scandalo delle torture a farci capire che lo show parla di noi, del nostro modo di dare forma allo “scontro fra civiltà” dove non c'è legge che regoli la convivenza sociale, ma solo la prepotenza becera di una istituzione anima le. Con tutte le manipolazioni del caso, che sono parte del megashow mediatico.
Lo dice chiaramente l'inviata di guerra Rai, Giovanna Botteri, in questa intervista che ci ha gentilmente concesso. Da dieci anni a questa parte la guerra è passata dalle seconde pagine alla prima. A Sarajevo gli inviati trasmettevano una notizia alla settimana, a Kabul l'informazione di guerra ha cominciato a occupare per intero lo spazio dei telegiornali. Da Bagdad c'è solo una sola e lunga litania: quella del sangue, delle pallottole, delle bombe, degli attentati, degli scontri di fuoco, delle prigioni.
Giovanna Botteri, ma cosa è accaduto in Iraq che ha colto di sorpresa l'opinione pubblica mondiale? Cosa non ha funzionato nella trasmissione delle notizie da parte dei media? Perché dopo l'abbattimento delle statue di Saddam ci è stato detto che tutto procedeva secondo programma e che l'Iraq ormai era libero? Come mai improvvisamente è come esplosa una polveriera che sembrava essere sotto controllo dalle forze militari? Perché i mezzi di informazione non avevano colto e denunciato lo stato di rivolta che si stava preparando sul territorio e che molti osservatori esterni invece avevano colto chiaramente?
Quando i carri armati americani entrarono a Bagdad, il 9 aprile del 2003, ci fu una sorta di sollievo tra i civili iracheni... tra quelli che avevano subito per trent'anni le violenze e le persecuzioni del regime, tra la gente comune che sperava nella fine della guerra, nell'inizio di un periodo di pace, di rinascita civile. Il segnale che qualcosa non funzionava lo si ebbe qua si subito. Quando ci fu l'assalto alla biblioteca e al museo nazionale, rimasti senza difesa mentre i marines facevano la guardia al ministero del petrolio. E poi i saccheggi, gli assalti, con le strade lasciate senza controllo e la popolazione civile ostaggio delle bande armate. La struttura repressiva e di controllo di Saddam era stata sciolta, ma al suo posto non c'era niente... poi la ricostruzione, diventata un lento affare di pochi. Il governo provvisorio che, invece di ribadire la sovranità territoriale irachena, è apparso da subito un fantoccio nelle mani della coalizione.
L'esercito dei mercenari, venti-trentamila perso ne senza legge né regole capaci di “privatizzare” anche le prigioni, la guerra, gli scontri. Lentamente l'infiltrarsi nel territorio di gruppi misti, ambigui, formati da arabi vicino ad Al Qaida e da nostalgici di Saddam, che hanno iniziato la stagione degli attentati, vero e proprio massacro degli iracheni. Di fronte a questo, disoccupazione, mancanza di qualsiasi assistenza sociale, acqua e luce che non tornano... la delusione è scoppiata con la rivolta degli sciiti, che dopo un anno si sono avvicinati alle posizioni radicali di Moqtada al Sadr, abbandonando la linea moderata dell'ayatollah Al Sistani. Quella che qualcuno aveva chiamato fin dall'inizio “resistenza”, era probabilmente solo terrorismo. Ma la rivolta che oggi infiamma le città irachene, da Falluja a Bassora, da Baghdad a Najaf, è la rivolta di un popolo che chiede di riprendere in mano il destino e le sorti del proprio Paese.
Com'è cambiata negli anni la sua esperienza di giornalista inviata sul fronte caldo della guerra?
Quando stavo a Sarajevo c'era forte la sensazione che la guerra non interessasse,
peggio, come si dice, non facesse "audience". Non si facevano dirette, ma un paio di pezzi alla settimana. Dall'Afghanistan tutto è cambiato. Si è “scoperto” che la guerra può fare ascolti! Ma per chi la vive, per chi la subisce, per chi la racconta, niente è cambiato.
Un buon giornalista – sostiene il grande Riszard Kapuscinski – è colui che sa fare a meno della mediazioni ufficiali e sa raccogliere le notizie direttamente dalla fonte principale che sono “gli altri”, ossia il popolo. Anche in questa guerra irachena si è parlato molto di menzogne e bugie (pensiamo alla fuga e morte di Tarek Aziz). Quanto è possibile proteggersi dalla fuga di notizie false e manipolate? E come è possibile reagire alla cosiddetta “nebbia sulla guerra” decisa dall'alto?
L'inviato racconta quello che vede, soprattutto chi, come me, lavora con le immagini. Oppure racconta i fatti, con le fonti, i testimoni. Lo fa anche quando è scomodo, quando tutti si aspettano altri fatti, altre realtà. Nessuno vuole accettare che i buoni non sono poi così buoni, che i cattivi hanno le loro ragioni, e che ogni volta, veramente ogni volta, in ogni momento sei costretto a scegliere fra il bene e il male. Non lo fai a monte, una volta per tutte. Lo fai ogni giorno, ogni minuto. La guerra in Iraq è stata da subito “politica”. Raccontare o meno i fatti, anche quello è entrato nella gestione politica dell'informazione dall'Iraq.
Il ruolo di Al Jazeera e il rapporto con i media occidentali. Crede che ci sia anche un problema di conoscenza del mondo islamico alla radice delle lacune con le quali a volte si rende conto di questa realtà in occidente?
Probabilmente Al Jazeera ragiona con una logica molto simile a quella di Cnn. Informazione capillare e, ogni tanto, un bel po' di propaganda.
Il dilemma degli ostaggi italiani e le difficoltà di informare l'opinione pubblica su questa realtà.
Il problema non è dei mezzi di informazione, ma dei responsabili politici. Sono loro che hanno parlato quando non dovevano e viceversa. Cosa ci facevano quattro persone con una macchina piena di armi, in una zona dove si sta combattendo? Che tipo di trattative sono in corso?
Le immagini dei torturatori americani ripropone squallidamente la spietatezza del sistema di guerra. Ma secondo lei come mai l'informazione è sempre così tardiva nel denunziare questi fatti?
Non mi pare che nella vicenda delle torture e delle violenze sia l'informazione a essere sotto accusa!
Ha avvertito un sentimento di “razzismo” (implicito o esplicito) a volte nel modo di raccontare l'Iraq da parte dei suoi colleghi e nel modo di rapportarsi agli iracheni?
Razzismo? Come si può chiamare altrimenti il fatto che si parla solo dei morti occidentali e mai di quelli iracheni? Come si può chiamare altrimenti il fatto che si è pianto per tre feriti italiani nella battaglia di Nassiriya senza pensare ai quindici o probabilmente ai duecento iracheni uccisi?
Esperienze di riconciliazione e di pace. Quante ne ha potute cogliere? E qual è la forza dei mediatori di pace dentro queste guerre moderne, violentissime e tecnologicamente devastanti?
La più importante esperienza di riconciliazione e di pace a cui ho assistito è stata quella del Sudafrica. Con il Tribunale della Verità e della Riconciliazione l'intero Paese ha affrontato il suo passato, le sue colpe, assumendole. Nessuno è uscito immacolato, a parte Nelson Mandela. Ma tutti hanno saputo. E, a partire dalla verità, hanno costruito il futuro.
Due sguardi sulla guerra irachena che ha appena lasciato; due immagini che l'hanno colpita profondamente.
Tante immagini. Moltissime le ho trasmesse e raccontate nei miei servizi. Qualcuna la terrò dentro di me, nascosta, per sempre.