Tortura light?
È in aumento in molte parti del mondo.
Anche in Italia non tutti sono convinti che torturare sia un reato.
La potenza delle immagini, trasmesse in prima serata da un'importante rete televisiva, ha inchiodato le autorità militari e politiche statunitensi a una realtà inequivocabile: in Iraq si tortura. Nello stesso carcere, Abu Ghraib, che aveva rappresentato un incubo per centinaia di migliaia di cittadini iracheni, la tortura si materializzava ancora una volta, con metodi non dissimili da quelli usati dal regime di Saddam Hussein. Grazie a quelle immagini, le “presunte torture denunciate da Amnesty International in Iraq” sono diventate un dato inconfutabile e hanno costretto il presidente George W. Bush a dirsi disgustato e a esigere immediati provvedimenti. Peccato, tuttavia, che il primo di questi sia stato la sostituzione della direttrice del carcere di Abu Ghraib con il responsabile del campo di detenzione di Guantanamo Bay.
Il dibattito italiano
Le vicende della tortura in Iraq si incrociano con un intenso dibattito, tutto italiano, sullo stesso tema.
“I sottoscritti chiedono di interpellare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro di grazia e giustizia per sapere […] premesso che non è stata ancor
introdotta nel nostro ordinamento l'autonoma ed espressa ipotesi delittuosa del reato di tortura, quale sia la posizione ufficiale del governo su tale inqualificabile inadempimento; quali decisioni il Governo, in conformità dell'articolo 10 della Costituzione, intenda adottare per adempiere con urgenza gli impegni assunti in una materia così intimamente connessa al rispetto dei diritti inviolabili della persona, garantiti dall'articolo 2 della Costituzione stessa, e alla civiltà umana e giuridica”.
Così, cinque anni fa, con l'interpellanza n. 2/01945 del 21 settembre 1999, l'on. Silvio Berlusconi del gruppo parlamentare Forza Italia, sosteneva la necessità di colmare il ritardo degli undici anni trascorsi dalla ratifica, da parte dell'Italia, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. Con quel provvedimento, va sottolineato, il nostro Paese si impegnava a introdurre nel codice penale il divieto esplicito di torturare.
Gli anni di ritardo, nel frattempo, sono diventati sedici. Il governo cui l'on. Berlusconi si era rivolto non assunse il provvedimento. Il governo di cui ora l'on. Berlusconi è presidente rischia di passare alla Storia per un provvedimento che suona beffardo nei confronti del diritto internazionale e offensivo nei confronti delle vittime di tortura.
Dopo una Campagna promossa da Amnesty International e durata tre anni, cui hanno preso parte cittadini, organizzazioni per i diritti umani, giornalisti e gli stessi parlamentari, sembrava che il 19 aprile – al termine di un iter tormentato e tortuoso tra varie Commissioni – fosse giunto il momento atteso: la discussione, alla Camera dei Deputati, della proposta di legge per l'introduzione nel codice penale dell'art. 613 bis.
Ma neanche un'ora dopo l'avvio dell'esame degli emendamenti, si è scoperto quale è la volontà della maggior parte dei parlamentari. Un emendamento presentato dalla Lega Nord, approvato nonostante il parere contrario del Governo, ha stabilito che vi è tortura solo se gli atti che la costituiscono vengono commessi in forma “reiterata”.
Il diritto internazionale
Di questo concetto, della reiterazione dell'atto, non vi è traccia in alcuna sentenza internazionale. Ovvio: l'atto della tortura è di per sé intrinsecamente grave e devastante, sul piano fisico e psicologico, che non occorre alcuna “reiterazione” per definirlo tale.
Il divieto di tortura è assoluto, non prevede eccezioni: così stabilisce il diritto internazionale, così prevedono le leggi di decine di Paesi nei quali il reato di tortura è previsto e sanzionato con pene adeguate alla sua gravità.
Vi è il tempo per rimediare, per cambiare il testo di questa legge. Nel frattempo, il segnale che esce dal Parlamento è il seguente: sì alla “tortura light”. Minacciare di morte i familiari di una persona sottoposta a interrogatorio, stuprare una detenuta – se l'atto non si “reitera”, cioè se non si fa più di una volta – non è tortura. Non è illegale.
Lo stupore deve essere contenuto. Viviamo in un'epoca nella quale le conquiste delle organizzazioni per diritti umani – costate sudore e sangue – rischiano di venir annullate in nome della cosiddetta “agenda della sicurezza”.
L'11 settembre 2001, a New York, è accaduto un atto di barbarie. I suoi responsabili potevano e dovevano essere ricercati, processati e condannati sulla base delle leggi internazionali vigenti. E invece, a partire dal 12 settembre 2001, è stato edificato un sistema di “giustizia di seconda classe” in base al quale a determinate persone (meglio, gruppi di persone) può essere negato il diritto alla difesa legale, il diritto a chiedere che un tribunale si pronunci sulla legalità di una detenzione, il diritto a ricorrere in appello contro una sentenza, il diritto all'integrità fisica.
Sotto l'ombrello protettivo della “sicurezza”, si è negato accesso a richiedenti asilo politico, si sono poste centinaia di persone in stato di detenzione amministrativa perché ritenute “pericolose” a causa della loro provenienza, della loro origine etnica o del loro credo religioso. Nel frattempo, gli Stati “campioni della pace” hanno continuato allegramente a produrre e a vendere armi, approfittando (e profittando economicamente) dello stato di allerta mondiale che ha spinto governi di ogni parte del mondo a riarmarsi. Percentuali significative di bilanci nazionali sono state destinate ad acquistare sistemi di armamento, a scapito dello sviluppo, dell'educazione, della sanità.
La tortura moderna
I casi di tortura, come era facile prevedere, sono au mentati. Negli ultimi due anni, Amnesty International ha denunciato episodi del genere in oltre cento Paesi. Le vittime sono migliaia. Gli effetti della tortura – una sorta di intimidazione collettiva – riguardano milioni e milioni di persone.
All'inizio del XXI secolo, la tortura si presenta per molti versi con le stesse modalità dei supplizi medievali. Il torturatore usa in primo luogo il proprio corpo (per picchiare, strangolare, stuprare), poi ciò che ha a portata di mano (attrezzi di
Accanto alla tortura prevalentemente fisica, si sta affermando una forma di tortura più sofisticata, che non lascia ferite o segni visibili sul corpo ma che devasta la mente, fino a farla impazzire e a rendere non credibile la vittima della tortura. Perché uno degli obiettivi di fondo del sistema della tortura è di non far raccontare alla vittima ciò che le è accaduto. Ecco alcuni metodi: esporre un prigioniero a una luce accecante o a musica assordante, tenerlo incappucciato per mesi, isolarlo dal punto di vista acustico, costringerlo a rimanere seduto in posizioni scomode per giorni e giorni, negargli il cibo, non farlo dormire…
La tortura moderna è anche un prodotto altamente tecnologico. Nel mondo attualmente operano oltre cento aziende che si sono specializzate nella produzione di strumenti di tortura. Si tratta per lo più di congegni elettrici o di sostanze chimiche che rendono inoffensiva (a volte per sempre…) la persona contro la quale vengono usati. Addirittura, la tecnologia è riuscita a eliminare l'ultimo difetto della tortura, ovviamente dal punto di vista del torturatore: la necessità di essere a contatto con il torturato. In diverse prigioni degli Usa (e non c'è dubbio che la loro popolarità si estenderà ad altre prigioni del mondo) sono utilizzate delle cinture elettriche: vengono allacciate alla vita di un prigioniero, ventiquattro ore al giorno. A una certa distanza, e a suo piacimento, un secondino aziona un telecomando che scarica elettricità nei reni della vittima.
Questi metodi descrivono bene l'obiettivo ultimo della tortura: annichilire, tenere sotto controllo e in perenne soggezione una persona, distruggerne l'identità. Avere presente questi obiettivi fa capire meglio il senso e il significato delle immagini del carcere di Abu Ghraib.