INFORMAZIONE

Il lungo inganno

I media e i diritti umani nell'ultimo volume curato da Reporter senza Frontiere Italia. La guerra in Iraq e la censura dominante.
Cristina Mattiello

“Non aspettare di essere privato della libertà di stampa per difenderla”: è il motto di Reporter senza Frontiere Italia, un'associazione nata in Francia nel 1985 per sostenere i giornalisti sottoposti a repressione e, in generale, la libertà di informazione, e oggi tra i gruppi più attivi nella denuncia dell'allarmante peggioramento dello stato dei diritti di espressione in tutto il mondo dopo l'11 Settembre. È un quadro fosco quello che emerge dai loro ultimi rapporti, la cui sintesi è presentata in un recente volume, significativamente intitolato Il lungo inganno. I media, l'informazione e i diritti umani (a cura di Stella Acerno, Fratelli Frilli Editori, Euro 14,50) insieme a molti altri contributi, di associazioni come Amnesty International o l'International Council on Human Rights Policy o di esperti dell'informazione.
Da angolature diverse tutti gli interventi convergono su un dato: molte garanzie fondamentali, operanti da lungo tempo (e forse troppo ottimisticamente date per acquisite) sono cadute una dopo l'altra in questi due anni e mezzo, anche nelle aree con una situazione di partenza più favorevole. Una perversa reazione a catena in cui i “cattivi esempi” possono aprire ovunque la via a sempre nuovi arretramenti.
La guerra in Iraq, in particolare, ha segnato il passaggio inquietante a un dichiarato “regime costante di censura” e controllo politico per i giornalisti sul campo. Gli inviati, già pesantemente limitati nei movimenti prima dell'attacco, per tutta la durata delle operazioni si sono trovati di fatto di fronte a due opzioni: o lavorare a stretto contatto con i comandi americani, aspettando le loro dichiarazioni – e menzogne – ufficiali o avanzare con le truppe, nella condizione, appositamente inventata, di embedded, che sottoponeva direttamente al controllo dei militari non solo il loro operato ma anche i loro testi.
Così tutti gli incidenti dell'avanzata, oltre che le vere cifre delle operazioni militari, sono stati occultati. Proprio perché la guerra oggi si vince anche, se non soprattutto, sul terreno mediatico e della propaganda, si è arrivati al punto che essa “ha l'obbligo di ingannare, di manipolare lo strumento televisivo”.
Come spiega Ennio Remondino, giornalista RAI, la stessa attenzione tattica che si riserva alle operazioni militari va profusa nella diffusione delle notizie: “Devi creare le condizioni per cui la guerra è giusta, necessaria, pulita. Ideal-politik. Devi vendere la guerra come ideal-politik. Siccome poi la guerra la conduci con il massimo della real politik solo ammazzando e distruggendo più degli altri se vuoi vincere, in mezzo ci sta l'obbligo dell'inganno. (…) La condizione di guerra in sé obbliga alla falsità”.
Ma è tutto il campo dei diritti umani a essere fortemente penalizzato nell'attuale copertura dei media. Paradossalmente in molti Paesi la situazione sembrerebbe migliorata rispetto al passato: si parla senz'altro di più di questi temi. Ma, come sottolinea Massimo Persotti di Amnesty International, il giudizio cambia se da una percezione superficiale si passa all'esame della qualità della copertura mediatica: “L'informazione è pur sempre una merce e le regole del mercato non coincidono con l'agenda dei diritti umani. Esemplare, per l'Italia, è il caso dell'immagine degli immigrati che ogni giorno rimbalza dai media sull'opinione pubblica".
Il lungo inganno
la analizza, in singoli articoli significativi, nei TG, in alcuni quotidiani. Sfumati o assenti i dati sulla repressione (soprattutto nei “Centri di detenzione”, eufemisticamente definiti “Centri di accoglienza”) e sulle violenze subite, l'associazione più frequente è con la criminalità, e la presenza straniera è sempre un “problema” da risolvere, spesso di ordine pubblico.
Ma anche l'informazione apparentemente solidale manca di approfondimento culturale, non si interroga mai sul perché dei fenomeni e sulle vere responsabilità. Spesso poi, utilizzando termini che evocano il degrado e la povertà estrema (“carrette del mare”, ecc.), nasconde lo stereotipo e il pregiudizio, fa pensare a una massa di disperati pronti a tutto e finisce con l'alimentare quella paura irrazionale che è alla base del razzismo e crea comunque tensioni nella convivenza.
Un altro meccanismo pericoloso diffusissimo è l'individuazione di due tipi di migrante: quello “buono”, di serie A, cui dovrebbe essere concesso di stare con noi, soprattutto visto che ci è funzionale – quanti articoli sulle espulsioni “ingiuste” sono in realtà una difesa dei nostri interessi? – e quello di serie B, che è meglio tenere in ogni caso alla larga (con tutti i mezzi, magari anche lasciandolo affogare nel canale di Sicilia).
Il richiamo finale è a uno sforzo eccezionale per educare e informare correttamente, utilizzando tutti gli spazi ancora aperti. E anche l'auspicio a una seria formazione dei giornalisti sui temi dei diritti umani.

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