FTO

Un marchio per globalizzare i diritti

Dal forum mondiale di Mumbay il nuovo marchio che riunisce tutte le realtà del commercio equo e solidale.
Deborah Lucchetti

Era una bella giornata primaverile resa calda e faticosa dall'impressionante livello di inquinamento atmosferico che ti prende alla gola non appena atterri a Mumbay. Il 19 gennaio del 2004 centinaia di persone, attivisti delle organizzazioni del commercio equo e solidale di molti Paesi del mondo, celebrità indiane e personaggi istituzionali, giornalisti e partecipanti al forum, trascinati dall'importanza dell'evento, si sono trovati nello slum di Dharavi, il più povero e immenso dell'Asia con i suoi 700.000 abitanti, più o meno come Torino o Genova.
In quell'occasione, per molti aspetti indimenticabile, si è celebrata la nascita di un marchio che rappresenta e riunisce tutte le realtà del commercio equo del mondo, un vero marchio globale. Il luogo forte e pieno di contraddizioni non è stato scelto a caso; come aveva dichiarato Joachim A. Magsaysay, presidente della Federation of slum dwellers of India nato proprio a Dharavi, il lancio del marchio doveva partire proprio da lì, dove la gente vive dei rifiuti della città, perché solo sperimentando esperienze concrete di economia alternativa all'insegna di regole nuove e giustizia, si può avere la speranza di cambiare un inferno come quello.

Un patto di giustizia
Il lancio del marchio a Mumbay rappresenta il punto di arrivo di un percorso concreto e articolato, lungo quarant'anni. Contrariamente ai brand lanciati dalle big corporations, che si scoprono vuoti e illusori perché privi di consistenza produttiva, il marchio FTO è il segno tangibile di economie reali e alternative che hanno quotidianamente scommesso sulla capacità di costruire mercati ed economie dal basso.
La geniale intuizione che occorreva trasformare uno scambio commerciale in un patto di giustizia basato sulla dignità ha guidato e fatto crescere negli anni migliaia di esperienze produttive e di progetti in tutto il mondo; vediamo quali effetti economici e sociali si sono via via consolidati grazie all'espansione del commercio equo e solidale.
Attraverso la corresponsione del prezzo giusto viene garantita la possibilità di remunerare il costo del lavoro secondo criteri di dignità; i produttori possono investire il maggior guadagno in attrezzature utili per la produzione ma, soprattutto, possono trasferire parte delle risorse in fondi che sostengono la creazione e il mantenimento di welfare locale; scuole, fondi per l'assistenza sanitaria, formazione, sanificazione dell'acqua e riforestazione, ecco alcuni degli impieghi più frequenti del denaro proveniente dalle esportazioni dei prodotti del Sud.
Il patto tra consumatori critici del Nord e produttori del circuito equo del Sud orienta l'uso delle risorse indirizzando il denaro verso quegli impieghi che generano le cosiddette esternalità positive, cioè conseguenze virtuose del mercato non sempre e immediatamente contabilizzate.
Non solo; la generazione di salari equi per le donne e gli uomini adulti scoraggia naturalmente il ricorso al lavoro minorile, restituendo a bambini e giovani opportunità formative prima inimmaginabili.
Un ulteriore elemento di grande beneficio e cambiamento è il prefinanziamento ai produttori, che può arrivare anche fino al 50% degli ordini; se pensiamo che il sistema bancario internazionale si sta avviando verso una stretta creditizia senza precedenti che, con l'accordo di Basilea 2 operativo dal 2007, renderà difficilissimo l'accesso al credito per le piccole e medie imprese, ci rendiamo conto di quanto rivoluzionario e vitale sia il circuito del commercio equo; anche e soprattutto quando esso mette mano alle regole e le cambia dal basso, mettendo in crisi i diktat di istituzioni sovranazionali inique e asservite ai capitali finanziari e alle lobby delle multinazionali.

La catena del valore
Quella che emerge è una vera catena del valore, che include non solo la generazione di flussi monetari ma anche e soprattutto la costruzione di capitale sociale, fondamentale per permettere ai popoli del sud del mondo di immaginare una società strutturalmente diversa, aperta al cambiamento, allo sviluppo, alla democrazia; in un'epoca così oscura e pericolosa in cui il colonialismo economico si riorganizza persino attraverso la guerra preventiva, diventa fondamentale dimostrare l'effettiva possibilità di autodeterminazione dei popoli; il commercio equo e solidale rappresenta una di queste possibilità e i numeri crescenti del fenomeno raccontano una realtà ormai definitivamente uscita dall'alveo della testimonianza, pronta a misurarsi alla pari con mercato e istituzioni.
Partiamo da questa esperienza, da un'economia fatta di volti e progetti, valori e connessioni, tutela delle tradizioni locali e promozione di processi produttivi rispettosi dell'ambiente, per spiegare cosa intendiamo per responsabilità; e allora diciamo con chiarezza che la responsabilità è figlia di un approccio etico all'economia e che senza una patto sociale forte tra soggetti economici che antepongono i valori al mercato, le operazioni di responsabilità sociale diventano facilmente azioni di green-washing funzionali ad accrescere quote di mercato catturando la crescente domanda etica dei consumatori dei Paesi ricchi.
Per parlare seriamente di Corporale Social Responsibility (CSR) dobbiamo affrontare l'intera filiera produttiva e valutarne prodotti, processi, scelte distributive e finanziarie, effetti sociali e ambientali, nel Nord e nel Sud del mondo; lontani dalle interpretazioni filantropiche tipiche delle imprese profit che pensano sia coerente produrre (sicuramente delocalizzando nei Paesi a basso costo del lavoro) sistemi di puntamento o bombe o OGM e pesticidi destinando contemporaneamente le briciole dei loro affari ad associazioni umanitarie, noi investiamo in economie di vita e di speranza, che bandiscono dall'intera filiera lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, sulla donna e sulla natura.
Le organizzazioni del commercio equo, che perseguendo interessi privati si adoperano anche per realizzare interessi pubblici, sono “condannate” all'intelligenza intesa (accogliendo lo scherzoso suggerimento di Carlo M. Cipolla, celebre economista) come l'opposto della stupidità: se stupidi sono coloro che quando agiscono riescono a danneggiare se stessi e gli altri, l'intelligenza sta invece nella capacità di realizzare benefici sia privati sia pubblici.

La filiera della responsabilità
Il percorso verso la costruzione del marchio mondiale è lungo e articolato. L'idea di caratterizzare alcuni prodotti alimentari con una etichetta “equa” nasce negli anni '80 e si sviluppa a tal punto da fare nascere FLO-I (Fairtrade Labelling

Che cos’è IFAT
Fondata nel 1989, IFAT (International Fair Trade Association) è composta da più di 200 membri in 55 Paesi e sta crescendo notevolmente. I membri di IFAT provengono da Asia, Africa, America Latina, Europa, Nord America, Australia e Pacifico; si tratta di associazioni e cooperative di produttori, società di esportazione, importatori, network nazionali, regionali e istituzioni finanziarie dedicate al movimento del Fair Trade (Commercio equo). In sintesi IFAT rappresenta l’intera catena del Fair Trade dal prodotto alla vendita.
La sua missione consiste nel migliorare la vita e il benessere dei produttori svantaggiati attraverso il collegamento, la promozione delle organizzazioni del Commercio Equo e il cambiamento delle regole per una maggiore giustizia nel commercio mondiale.

http://www.ifat.org
Organisation International), organizzazione internazionale che si occupa oggi di certificare prodotti equi che rispondono a precise caratteristiche e che possono poi essere immessi nei circuiti commerciali, in particolare quelli della grande distribuzione.
Il marchio FTO (Fair Trade Organisation) nasce oggi per rafforzare la credibilità delle organizzazioni verso i decisori politici, il mercato e i consumatori e per veicolare un concetto diverso: esso infatti non certifica un prodotto ma identifica una organizzazione appartenente a IFAT e quindi dotata dei requisiti di prodotto e di processo precisi e stringenti; esso intende distinguere le organizzazioni del commercio equo vere e proprie da altre organizzazioni commerciali coinvolte nel fair trade attraverso l'acquisto di prodotti etichettati secondo il sistema FLO-I, come ad esempio le catene della grande distribuzione; organizzazioni, è evidente, che possono commercializzare prodotti etici senza esserlo.
Il marchio FTO nasce quindi per rivelare una filiera ad alto tasso di responsabilità, comprendendo anche i cosiddetti prodotti non-food tradizionalmente legati alle reti di piccoli produttori e artigiani, in particolare le donne.
È un marchio che racconta la storia e l'impegno concreto di più di un milione di piccoli produttori e lavoratori che fanno parte di circa 300 organizzazioni di base sparse in America Latina, Africa e Asia; è una marchio che racconta le economie alternative e dal basso intorno alle quali ruotano le vite di ormai quasi 6 milioni di persone; è un marchio che celebra connessioni e reti virtuose tra i produttori equi del sud e i consumatori e risparmiatori critici del nord.
A livello internazionale IFAT e FLO-I stanno lavorando per sviluppare un sistema di certificazione dei prodotti artigianali che si affianchi a quello degli alimentari; soprattutto stanno lavorando per sviluppare un sistema integrato e completo di monitoraggio per tutte le organizzazioni e i prodotti del commercio equo, rispondendo alla giusta necessità di individuare modalità di verifica indipendenti, che garantiscano l'effettiva eticità dei processi e allontanino i possibili rischi di auto-referenzialità del sistema.

Note

Roba dell'Altro Mondo

Fonti:
L. Becchetti, L. Paganetto, Finanza etica, commercio equo e solidale
L. Guadagnucci, F. Gavelli, La crisi di crescita
C. M. Cipolla, Saggio sulla stupidità

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    C. M. Cipolla, Saggio sulla stupidità

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