CINEMA

In moto con il Che

“I diari della motocicletta” di Walter Salles ripropongono, senza retorica, il viaggio di Ernesto Guevara e Alberto Granado nell'America latina dei primi anni Cinquanta.
Andrea Bigalli

Nel 1993, solo un anno dopo la pubblicazione a Cuba, per i tipi di Feltrinelli uscivano le “Notas de viaje”, con titolo italiano “Latinoamericana”: un giovane Ernesto Guevara de la Serna raccontava il suo viaggio attraverso il continente sudamericano, compiuto con mezzi avventurosi, a cavallo tra il 1951 e il 1952 e i suoi 23-24 anni. Con questo libro si apriva una stagione di rinnovato interesse per la figura del Che: ne sarebbero seguiti molti altri, suoi e su di lui, e la sua immagine avrebbe ricominciato a comparire spesso, vera e propria icona intergenerazionale, capace di resistere anche al modificarsi delle ideologie che hanno fatto da contesto alla sua notorietà.
La questione del perdurare di un mito si ripropone con l'uscita di un film da tempo progettato dal giornalista italiano Gianni Minà, che deteneva i diritti di “Latinoamericana”: con l'intervento determinante di Robert Redford e uno sforzo produttivo su cui si concentrano tre diversi Paesi sudamericani, Argentina, Cile, Perù, ne “I diari della motocicletta” del regista brasiliano Walter Salles, vediamo rappresentate per il grande schermo le vicende del viaggio di Ernesto Guevara e dell'amico Alberto Granado. In un momento particolare delle loro vite, il primo si sta per laureare in medicina, il secondo, biologo, è prossimo a compiere il suo trentesimo compleanno, a bordo di una gloriosa ma ormai approssimativa moto Norton 500 (detta “la Poderosa II”) si mettono in viaggio per andare a incontrare la realtà del continente in cui vivono.
Le contraddizioni sociali, le prospettive di unità culturale, ma pure di divisione politica e storica, la bellezza dei paesaggi e quella delle opere umane, daranno materia abbondante per nuove consapevolezze. In grado di cambiare in modo radicale colui che le ha vissute. “Il personaggio che ha scritto queste note è morto nel momento in cui ha calpestato di nuovo la terra argentina… questo vagare per la nostra “immensa America” mi ha cambiato molto più di quanto credessi”: così lo stesso Guevara riassume il senso di questa esperienza. La scelta di classe, quella rivoluzionaria, alcuni elementi che ritroveremo nelle vicende successive, quasi come il marchio di un destino già determinato: i biografi annotano l'importanza di questo viaggio (i precedenti, quelli che seguiranno) per capire la genesi di un'erranza ostinata, coniugata a un'etica severa: ciò darà al Che la statura di un don Chisciotte contemporaneo.
Il film – emotivamente coinvolgente, ben fotografato negli splendidi scenari, in grado di far capire quella nostalgia “latinoamericana” che si prova quando li si è conosciuti – fa una scelta felice nel presentare la storia spogliata dalle concessioni al mito. Un ragazzo come tanti altri, che scopre aspetti significativi della sua identità nel confronto con la povertà, l'ingiustizia, la malattia, la conoscenza delle proprie radici culturali, il rifiuto di un ruolo sociale che pure le circostanze della vita gli consentirebbero (vedi il rapporto con Chinchina, la fidanzata appartenente alla borghesia, persa per fedeltà all'istinto vagabondo).
In particolare la permanenza al lebbrosario di san Pablo, in Perù, sul Rio delle Amazzoni, segna il giovane Ernesto: una notte egli traversa a nuoto il fiume, che separa la zona in cui vivono i sani del personale dell'ospedale dalla riva presso cui sorge il villaggio dei malati. Poco importa se le biografie riportano l'episodio senza collegarlo alla volontà di Guevara di festeggiare il proprio compleanno tra gli amici lebbrosi, a cui si è accostato rifiutando di indossare i guanti prescritti dal regolamento: il tutto è plausibile in quel che si comprende della sensibilità dell'argentino. Tramontate le utopie della rivoluzione armata, resta il fascino di un uomo capace di coniugare azione e ideale, e un ideale limpido di amore per i poveri.
Tra le poche figure post-romantiche del XX secolo, Ernesto Che Guevara non scomparirà dall'immaginario collettivo proprio per lo slancio del consegnarsi all'utopia della giustizia: di questo, giovani o meno avremo sempre bisogno. Al di là degli aspetti datati e delle ambiguità, non si può cessare di sentirsi vicini un uomo che si congeda dai figli lasciando loro scritto: “Siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo. È la qualità più bella di un rivoluzionario”.

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