ITALIA

Primo, educare coscienze critiche

Nella cultura ufficiale, nei progetti di riforma della scuola, nella Chiesa: a dominare nel nostro Paese è un pensiero unico, un conformismo omologante.
Guglielmo Minervini

Sul nostro carattere nazionale ogni tanto s'infiamma una discussione. Il pendolo regolarmente oscilla tra vizi e virtù, del costume. Tra vizi che divengono virtù ma anche viceversa pregi che rovinano in insopportabili difetti. Al mutare del contesto. Cos'ha in comune la nitida Italia di Falcone e Borsellino con quella opaca di Berlusconi? L'Italia indignata dei girotondi con quella accondiscente dei condoni? L'Italia del Salento che accoglie esodi di disperazione con quella leghista che respinge “terroni” e “bingo bongo”? L'Italia che si vergogna di cantare in campo pure l'inno nazionale e quella che resta fermamente contraria alla guerra e alla pena di morte?
Forse hanno ragione Franco Cassano e i sociologi a sostenere che ogni elemento del carattere nazionale ha una sua intrinseca natura ambivalente, per cui in ogni cosa si nasconde sempre un rovescio: è vero che nel fondo del nostro carattere

Quel nostro carattere italiano…
Non è semplice descrivere la nozione di carattere nazionale. Più che uno schema, è un insieme di immagini talvolta coerenti, talaltra contraddittorie, che si accentuano a seconda dei passaggi concreti della storia di un Paese.
E il carattere italiano gioca in modo ambivalente.
Secondo alcuni nel carattere italiano il codice materno prevale su quello paterno. Il padre (la norma) latita, invece la mamma è ipercomprensiva. Perché? Molto sinteticamente, in Italia l’unità nazionale giunge con quattro secoli di ritardo e questo probabilmente non è privo di significato. Non è detto poi che il significato sia univocamente negativo. Il ritardo dello Stato, padre moderno e laico, forse è all’origine della tendenza a sconfinare spesso manifestata dagli italiani.
Tutto questo ha prodotto quella che si può definire la renitenza al “noi”: il noi, il momento in cui siamo tutti insieme ci fa paura. Ricordate la nazionale di calcio che si vergogna di cantare l’inno nazionale?
La renitenza al “noi” comincia dalle piccole infrazioni, dalla tendenza a evitare il contatto tra la nostra libertà e l’utilità comune. È una delle patologie, benché ci sia anche un altro lato della personalità. La tendenza, per esempio, a non prendere sul serio alcuni miti dello Stato spesso carichi di aggressività, come, ad esempio l’etnocentrismo, la convinzione cioè che il proprio Paese abbia una missione storica da portare nel mondo magari con le armi.

Franco Cassano – sociologo
giace latente una sorta di “renitenza al noi”, di guerriglia strisciante con lo spirito pubblico, ma è altrettanto vero che questo ci ha impedito di divenire nazionalisti, di coltivare deliri di assoluto e miti di onnipotenza.
Forse hanno ragione gli storici a sostenere che il familismo non è una degenerazione antropologica, un effetto congenito della nostra anomala collocazione che induce sempre a trovare nelle mura domestiche il riparo dalle intemperie del tempo e dello spazio. Il debole radicamento delle relazioni più lunghe di quelle familiari, il fragile senso delle regole e delle istituzioni, sono più semplicemente riconducibili al ritardo con cui si è formato il nostro stato nazionale, cioè il padre, la norma, il “noi” appunto.
Forse hanno ragione Goffredo Fofi e altri critici della cultura (non molti per la verità) a sostenere che dell'italiano medio raffigurato da Alberto Sordi non c'è solo la versione buonista, scanzonata e innocua, ma anche un'altra spregiudicata, cinica, opportunista.
Forse. Ma se ne discute. Invece, il conformismo è divenuto invisibile. Da molti anni, ormai. Sciascia è l'ultimo ad aver svolto un'indagine penetrante nelle origini del conformismo italico. Nell'iniziatica parabola del suo Candido, di volterriana memoria, l'attitudine a conformarsi piuttosto che a ragionare viene riconosciuta come figlia legittima dell'unione di due chiese, la cattolica e la comunista. Pur contrapponendosi sull'orizzonte escatologico del fine ultimo, la cultura cattolica e quella comunista hanno avuto in comune la certezza della verità, l'assunto del dogma come categoria che soverchia sia la ragione sia la coscienza, sollevando i singoli dalle responsabilità. Appartenere al gruppo significa circoscrivere il pensiero nel perimetro del senso comune, cedergli una sovranità che è tanto più assoluta quanto più questo è chiuso ed egocentrico.
Le due chiese sono divenute le principali fabbriche, nel nostro Paese, dell'attitudine a conformarsi.
Prim'ancora c'era voluto lo sguardo corsaro, dissonante, eretico di Pasolini per denunciare la trasformazione del cattolicesimo da fede a religione, la perdita del suo sovversivo carattere paradossale racchiuso nel nucleo evangelico in cambio di una più rassicurante funzione di equilibrio sociale. Il cattolicesimo come strumento usato dal potere per omologare le culture popolari dell'Italia delle cento città all'unico pensiero del consumismo, senza coscienza e senza morale.
Non a caso, il tema della coscienza in urto con le istituzioni comunista e cattolica è filo che collega la vicenda autobiografica e la produzione letteraria di Silone: il suo “cristiano senza chiesa e comunista senza partito” è l'estrema dichiarazione di sconfitta o forse più semplicemente di fuga della coscienza di fronte a un'appartenenza che schiaccia il singolo così degenerando l'utopia originaria in realtà totalitaria.
Un'appartenenza che liberi le coscienze senza uniformarle non si è radicata nella cultura nazionale.
Forse per questa e per molte altre ragioni, una vera cultura pedagogica non è mai esistita in Italia. Certo nel nostro Paese sono fiorite eloquenti testimonianze di pedagogisti il cui contributo ancor oggi è generalmente più noto all'estero che qui da noi.
Don Lorenzo Milani era un irrequieto prete cattolico, per di più con una vocazione adulta e di madre ebrea. Aldo Capitini un filosofo piuttosto visionario, culturalmente inclassificabile se non con una generica dizione di “socialista liberale”, comunque ispirato da una religiosità consapevolmente non cattolica.
Addirittura nemmeno credenti erano, invece, l'ingegner Danilo Dolci, emigrante al contrario, spiantatosi dal profondo nord per radicarsi nel profondo sud, o Maria Montessori dissonante medico inspiegabilmente affascinata dall'universo creativo dell'infanzia. Storie singolari. Figure curiose. Pensieri disomogenei. Fuori dal coro. Stranieri alle grandi culture. In comune proprio quella autobiografica condizione di diversità, quel fuoco d'inquietudine che, prima o poi, impone l'insubordinazione alla prigionia della “identità” della maggioranza. Stare di traverso significa osservare la verità dall'altro lato, guardare le cose da un altro punto di vista.
E, nonostante i punti di vista restino molto diversi tra loro, lo sguardo di questi “pedagogisti” in senso lato ha finito per convergere sullo stesso crocevia. Le loro parole emanano ancora lo stesso profumo: l'autonomia morale della persona nelle scelte. Educare significa svolgere la capacità di “essere nel mondo”, responsabilmente come persone. E, a volte, anche valicando la frontiera dell'appartenenza al gruppo o alla comunità. La coscienza di ciascuno è figlia del genere umano in quanto tale, prima di essere cittadina di uno Stato, di una cultura o di una civiltà.
Restano tracce significative di questa pedagogia della coscienza critica nella cultura ufficiale? No. Una prova che vale per tutte: la riforma che il ministro Moratti ha disegnato per la scuola italiana postula un'istruzione fondata sui saperi e sulle competenze, mica su teste autonome e cervelli svegli e coscienze responsabili. Bisogna apprendere a operare nel mondo non a porsi domande. Contano le abilità, non le idee. Il fare, non il pensare. Come se il mercato fosse l'orizzonte, non la
Prigionieri della “tradizione giudaico-cristiana”
C’è una forte spinta a costruire su una conformata lettura del passato l’identità del presente. Non a caso ritornano dominanti espressioni chiave come tradizione, radici, identità. Un esempio? Il nuovo programma di storia che, grazie alla riforma Moratti, sarà da quest’anno insegnato in tutte le scuole d’Italia ruota esclusivamente attorno alla tradizione giudaico-cristiano.
Dal prossimo anno saremo sollecitati a conformarci all’idea che lo sviluppo della vicenda umana abbia il suo centro nella tradizione giudaico-cristiana. Tutta la ricerca storiografica, nata dal ’68, aperta al contrario alla individuazione degli intrecci che configurano una nuova dimensione planetaria nella formazione dei caratteri della nostra cultura, va rimossa perché produce identità deboli.

Antonio Brusa – storico
persona. La produzione lo scopo, non la formazione.
Della riforma Moratti inquieta la visione più che la singola scelta. La riduzione del tempo prolungato o l'arcaica semplificazione degli indirizzi della secondaria superiore segnano indubbiamente una regressione rispetto al cammino compiuto dalla scuola italiana negli ultimi trent'anni, eppure non costituiscono l'arretramento più preoccupante. Diciamolo pure: anche all'interno della comunità ecclesiale, nonostante di mezzo ci sia stato un Concilio aperto a un grande slancio di cambiamento, si preferisce produrre conformismo di serie piuttosto che credenti consapevoli del loro specifico, indelegabile ruolo nella costruzione del Regno.
La fine della Chiesa collaterale alla politica non ha aperto una nuova stagione di libertà e di autonomia e, quindi, di responsabilità. La chiesa non si è ripresa il suo legittimo ruolo di coscienza morale della comunità. Il suo silenzio è anzi assordante dinanzi allo sfilacciamento del tessuto civile nel nostro Paese. Parte tra le altre parti, invece di stimolare una comune tensione verso il futuro, sembra accontentarsi della tutela della sua posizione. Del suo spazio “cattolico”. Non di quello universale, appunto. Invece che sprigionare le incontenibili potenzialità di cambiamento del suo annuncio sembra comprimerle in norme e prescrizioni.
Ha un senso proprio oggi riproporre la sfida di “educare coscienze critiche”, capaci di non conformarsi e di restare fedeli a se stesse? Nostalgia desueta oppure urgenza autentica?
Al solito, per darsi una risposta occorre interrogare la realtà. Abitiamo un mondo che ha ormai mollato gli ormeggi che lo ancoravano alle certezze, alle verità, agli assoluti grazie ai quali le parole si ricongiungevano stabilmente con il senso e l'orizzonte con la rotta. L'identità come la coscienza, dice Baumann con una metafora molto efficace, ha perso il suo stato solido, ormai scorre liquida e mutevole a seconda dei contesti. Cambia continuamente, senza più un centro. E questo crea insicurezza, fragilità. Anche paura. Il bisogno di educare coscienze mature e responsabili non deriva da una generica esigenza morale, ma da una concreta urgenza di questo tempo. Un nuovo senso non verrà dall'alto. Da una primazia che riconquista il diritto di possesso esclusivo della verità. Siamo tutti compagni di strada. Alla ricerca, non necessariamente allo sbando.
Vi ricordate l'invito di Bonhoeffer a fare nuovo il mondo come “se Dio non ci fosse”, a ricercare le relazioni che Dio ha tessuto nel mondo facendo a meno di Lui, a riassaporare il cristianesimo nella sua mondanità, come fede non solo come religione? Ebbene, occorre qualcosa del genere per ritrovare il gusto di sentirci protagonisti di relazioni positive inedite, finalmente affidate alla nostra responsabilità di coscienze mature che sanno vivere, senza cedere al panico, in un mondo complicato e globale e ormai orfano di assoluti. Eppure il solo che ci è stato affidato.

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