La dialettica della libertà
A colloquio con uno dei magistrati-simbolo del nostro Paese, per ripercorrerne storia e ricordi.
Ho provato, anche con le parole dei bambini, a rivolgere al dott. Borrelli domande che derivano dalla mia curiosità di educatore per scoprire dove ha imparato a riconoscere, assieme all'importanza della libertà, il valore del limite, quando ha imparato a coniugare il gusto della legalità con quello della
coscienza.
Paolo, 6 anni, mentre in classe si sta parlando di giustizia, si avvicina silenzioso alla maestra e dice “per me la giustizia è mia mamma”. Incuriosita la maestra gli chiede perché. “Perché mi dà sempre una fetta di torta uguale a quella che dà a mio fratello anche se lui è più grande di me”. Ci racconti il clima familiare in cui è cresciuto e i suoi ricordi.
Mio padre era magistrato, come mio nonno e mio bisnonno, che era giudice conciliatore in un comune vicino Napoli. Anche mio figlio è magistrato. In que ste quattro generazioni avvicendate nello stesso servizio è racchiusa la formula che illustra il tipo di formazione che ho ricevuto. Un'educazione nient'affatto “bacchettona”. Mio padre e mio nonno avevano orizzonti molto ampi e una curiosità per le scienze e le arti in tutte le loro manifestazioni. Tuttavia al fondo c'era una particolare forma di rigore intellettuale e morale non espressione di conformismo, ma dell'esigenza di vivere la vita senza dissiparne il senso o un solo minuto. In casa non esisteva l'ozio.
Mio padre e mia madre se vedevano un figlio in un momento incantato o con lo sguardo perso fuori dalla finestra, lo richiamavano subito: “Leggi un libro, fa qualche cosa, non rimanere lì inerte!”, proprio per sottolineare questo bisogno di continua formazione e crescita. Ho imparato il rispetto della libertà e al tempo stesso questa necessità di conformarsi, di adeguarsi alla norma nei suoi valori fondamentali: in famiglia ma anche a scuola, dove ho avuto la fortuna di vivere un'esperienza singolare e insegnanti che hanno lasciato in me tracce profondissime.
Negli anni dalla scuola elementare, al ginnasio, in una fase difficile della nostra storia (il periodo di alleanze con altri Paesi per seguire i quali i governanti nostri di allora ci avevano trascinato in quella terribile guerra), ho incontrato professori di lettere e lingue che, sia pure con tutta la prudenza indispensabile per non incorrere nei rigori della repressione, ci aprivano gli occhi sui reali valori a cui si deve ispirare la costruzione di una vera società.
Tanja, 7 anni, traduce in versi le emozioni e i sentimenti sulla libertà: “Libertà, sei l'azzurro mare d'estate, sei la matta voglia di tuffarmi, sei la paura di annegare, sei l'immenso bisogno del papà vicino”. Anche Nicolò, pure lui 7 anni, bambino però di strada, ha qualcosa da scrivere sulla libertà: “Libertà, quando mi fai sentire che sono solo, senza nessuno che mi veda, senza nessuno che mi protegga, senza nessuno che mi voglia, libertà io ti odio perché non sei libertà”.
Cosa ne pensa?
Sono parole bellissime, straordinarie che esprimono in forma immediata e genuina lo sfondo filosofico della libertà, che non è mai vuoto totale né arbitrio totale. Il senso della libertà è nel rapporto dialettico tra una norma, che può provenire dall'esterno, o che avverto dentro me stesso perché magari deriva dal passato remoto, e i miei bisogni, pulsioni, desideri, lo sviluppo della mia vita. Tra queste due polarità, tra una norma e, nel contempo, il desiderio di trascendere la norma, scorre la dialettica della libertà. Nelle parole dei due bambini è espresso con straordinaria efficacia il senso di smarrimento che trovi se perdi il rapporto con la norma di riferimento, con il punto fermo. E al tempo stesso, l'esaltazione e l'ebbrezza che provi se riesci a tuffarti in questo mare azzurro della libertà.
Bisogna imparare a vivere esperienze di libertà e di responsabilità. Coniugare insieme libertà e responsabilità non è una cosa innata nell'individuo, è un apprendimento che passa attraverso un momento della nostra vita molto conflittuale che è l'adolescenza. Ha un ricordo della sua adolescenza nel quale ha trasgredito?
Sì, c'è stato un momento di sbandamento nella mia vita. L'ultimo anno del ginnasio ho fatto – non posso dire di averlo frequentato, perché eravamo sfollati in un paese vicino Firenze, in montagna – degli esami a metà anno e in qualche modo sono riuscito a farmi promuovere in prima liceo. In parte gli anni del liceo sono stati di sbandamento, perché in quel periodo mio padre lavorava altrove. Con i miei compagni avevo l'abitudine di marinare spesso la scuola e addirittura di costruirmi con le mie mani le giustificazioni: lo confesso!
È durato relativamente poco. Eppure, credo che questa esperienza mi abbia fatto bene perché in terza liceo ho ripreso completamente le redini di me stesso e mi sono reso conto che quel disordine non aveva sbocco, lasciava insoddisfatto me e addolorava la mia famiglia. Ho ripreso il governo di me stesso e sono arrivato a una licenza liceale brillante. In quel momento ho abusato della libertà, forse perché mi era venuto meno il riferimento diretto della figura paterna, da cui si attinge con maggiore forza anche per i valori morali.
La legge protegge… o no?
Certo che la legge protegge! Si può non concordare talvolta con la legge creata dagli uomini, costituita da codici e norme nate in un parlamento. Può accadere di non condividerne il contenuto, ma basta richiamare le limpide parole con le quali Socrate spiega a Critone come, una città in cui i cittadini non rispettano le leggi, sia destinata alla distruzione, all'autodistruzione. Socrate è lo stesso che poi rigetta l'offerta di pagare i suoi carce rieri per ottenere la libertà e avere salva la vita. Esiste un imperativo civico che impone di adeguarci alla legge anche se non convince, sempre che non si versi in quelle situazioni estreme di leggi o di ordini che violano i più elementari principi della dignità umana, del rispetto per la vita e per il prossimo. Queste sono ipotesi limite in cui è lecito resistere. Il diritto di resistenza è stato teorizzato fin dal passato remoto, sin nel medioevo.
E resistenza è una parola grossa…
Grossa e impegnativa.
Lei ha più volte ribadito la convinzione del legame tra la piccola elusione, la raccomandazione per non pagare una multa o una contravvenzione o una tassa, e le grandi corruzioni. La legalità si esercita, dunque, nel quotidiano. Per acquisire questa capacità, però, bisogna che qualcuno ce lo insegni. Di chi è questo compito?
Ci sono abitudini purtroppo molto diffuse nel nostro Paese. Tra le piccole licenze che siamo tentati di concederci nella nostra vita quotidiana e le grandi illegalità, oggetto di tanti processi tuttora aperti, c'è un continuum, perché se si interrompe l'abitudine alla legalità nelle piccole cose, tende a scomparire anche in quelle più importanti. C'è un progressivo degrado nella coscienza civica del cittadino, dalla piccola infrazione alla media e alla grossa infrazione. La pratica dell'illegalità è contagiosa: poiché tutti siamo tentati da qualche impulso egoistico a violare una certa regola, l'esempio altrui incoraggia a fare altrettanto specie se la violazione è impunita.
L'educazione alla legalità spetta alla scuola, alla famiglia, alla chiesa, in generale alle istituzioni. Uno dei miei insegnanti mi diceva: “Vedi Borrelli, il tuo papà è giudice, ma il nostro compito di educatori è più importante perché viene prima del giudice. Soltanto quelli che sfuggono alle nostre maglie, al nostro compito, quelli nei cui confronti falliamo, cadono nelle mani della giustizia”. Quindi il lavoro del giudice viene dopo e deve soltanto in qualche modo rassegnarsi a porre rimedio a ciò che è sfuggito alle cure dell'insegnante. Certo anche la magistratura ha un compito educativo, ma è una ricaduta del suo compito prioritario, il ripristino dell'ordine. Ovviamente, in uno stato di diritto innanzitutto le autorità e i rappresentanti delle istituzioni sono i primi a essere soggetti alla legge.
Ho fatto fare un elenco di quali sono, secondo i bambini, le persone più libere. Al primi posto, a pari merito, hanno messo Dio e Berlusconi. Al secondo, il Papa, chi ha tanti soldi e chi è furbo e imbroglione. Al terzo, il capo dei soldati e il capo della televisione. Al quarto, i papà. Seguono poi i nonni e i maestri, i sacerdoti e per chiudere i bambini. Sono i meno liberi di tutti. E secondo lei?
Mi amareggia ascoltare bambini che dicono questo. Perché significa che già dai primissimi anni hanno assorbito una certa “tavola di valori”. Ed è allarmante. Certo, al primo posto hanno messo Dio, l'onnipotente. Poi il Presidente del Consiglio e dietro il Papa, e questo crea un po' di confusione nelle idee. Come spiegare ai bambini cosa significa la libertà e la norma? Forse così: se il valore della libertà fosse quello racchiuso in quella graduatoria, la società finirebbe nel caos. Quindi, un certo tipo di vincoli che limitano la libertà individuale sono indispensabili perché la vita associata possa svolgersi pacificamente e senza che i cittadini siano l'uno contro l'altro.