Chi arma il Medio Oriente?
Nella via militare scelta dal governo di Tel Aviv per rendere impossibile la sopravvivenza della popolazione palestinese il ruolo delle Forze Armate (IDF) e dell’apparato militare-industriale è determinate. Le operazioni militari in corso rappresentano una sorta di banco di prova per la sperimentazione di una nuova serie di tattiche e strategie per la conduzione di un tipo di guerra ‘asimmetrica’, con l’impiego di complessi sistemi d’arma tecnologicamente sofisticati (elicotteri e aerei d’attacco, missili, ecc.) e di apparati e strutture per il comando, controllo, comunicazione, ricognizione, intelligence e guerra elettronica.
La novità sta nel fatto che i sistemi progettati per uno scontro su vasta scala tra apparati militari vengono impiegati in un contesto di rivolta e resistenza, allo scopo di controllare e condizionare la vita, i movimenti e il destino di un’intera popolazione. Se l’esperimento riuscirà c’è da aspettarsi che verrà imitato e perfezionato sugli altri fronti dell’attuale ‘guerra infinita’.
UN MERCATO INARRESTABILE
Dall’inizio degli anni Settanta, la regione del Vicino Oriente rappresenta il mercato più importante del Terzo Mondo per quanto riguarda le esportazioni di armi. Su questo concordano i dati del SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) e le stime ufficiali statunitensi dell’U.S. Arms Control and Disarmament Agency (ACDA) e dell’United States Congressional Research Service (USCRS).
Secondo i dati SIPRI per i periodi 1990-94 e 1995-2001, tra i primi quindici importatori di maggiori sistemi d’arma ben sei appartengono all’area di tensione mediorientale (Arabia Saudita, Turchia, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Israele e Kuwait).
Nel periodo 1994-2001 gli Stati Uniti sono stati di gran lunga il maggiore fornitore di armi della regione, con il 53,5% del portafoglio ordini (40,4 miliardi di dollari correnti) e il 43,3% delle operazioni, per un totale di 47,2 miliardi di dollari.
I maggiori paesi europei esportatori d’armamenti (Francia, Gran Bretagna, Germania e Italia) nei primi anni Novanta complessivamente hanno fatto registrare accordi e trasferimenti che, seppure inferiori, sono paragonabili a quelli statunitensi, grazie ai contratti conclusi con Arabia Saudita, EAU e Qatar, ma dal 1998 la loro quota di mercato mediorientale si è drasticamente ridotta a causa dell’esaurirsi delle commesse precedenti. Si può quindi affermare che, al contrario dell’industria militare Usa, le aziende europee del settore hanno in questa regione una capacità di penetrazione episodica.
La Russia occupa una posizione di rincalzo nettamente lontana dai livelli raggiunti dall’Urss, anche se nel periodo 1998-2001 si è assistito a un ‘risveglio’ delle esportazioni russe. La Cina si colloca in nicchie di mercato residuali grazie al costo relativamente contenuto dei suoi sistemi d’arma, che tuttavia non presentano un alto grado di evoluzione tecnologica.
Sul versante dell’offerta è sempre prevalso l’interesse dei grandi esportatori finalizzato a mantenere stretti rapporti e a indurre dipendenza dalle loro forniture militari e tecnologiche nei paesi di una regione strategicamente importantissima.
LA PAX AMERICANA
Nel corso degli anni Novanta mentre alcuni Paesi arabi grandi importatori riforniti soprattutto dall’ex Urss o sottoposti ad embargo (Iraq, Siria e Iran) hanno diminuito o cessato le loro importazioni, Israele le ha mantenute a un livello medio pressoché identico rispetto alla seconda metà del decennio precedente. Tale comportamento, in presenza di una contrazione generale del mercato, ha portato il Paese nella parte alta della graduatoria dei maggiori acquirenti. Uno dei pilastri della pax americana nel Vicino Oriente è costituito da una sorta di corsa regionale agli armamenti che vede protagonisti gli stessi paesi cardine della strategia politico militare statunitense nella regione (Egitto, Israele, Arabia Saudita, stati del Golfo). Paesi arabi e Israele hanno in comune il principale se non l’unico fornitore di armi: gli Usa. Gli Emirati Arabi Uniti (UAE) detengono il maggior portafoglio di accordi per l’importazione di armamenti nel periodo 1994-2001 (16 miliardi di dollari), seguiti dall’Arabia Saudita (14,1 miliardi), dall’Egitto (7,4 miliardi), da Israele (7,2 miliardi) e da Iran e Kuwait (2,9 miliardi).
Se si prende in esame il grado di dipendenza dagli Usa dei singoli importatori, espresso come incidenza sul totale degli accordi e delle importazioni svolte provenienti da Washington, si nota una differenziazione tra Israele ed Egitto da una parte – fortemente legati alle forniture Usa rispettivamente per il 94,4 % (6,8 miliardi di dollari) e per il 77% (5,7 miliardi di dollari) –, e gli stati del Golfo che hanno maggiormente diversificato il novero dei loro fornitori. Gli Usa sono accreditati del 32,6% (4,6 miliardi di dollari) delle transazioni di armi dall’Arabia Saudita, che si è rivolta ai maggiori esportatori europei per il 48,2% delle forniture, mentre la presenza statunitense scende al 42,5% (6,8 miliardi di dollari) nel caso degli UAE, Paese che si rivolge per il 40% degli acquisti al gruppo dei principali esportatori dell’Unione Europea. Il Kuwait mostra una tendenza ancora più marcata verso la diversificazione dei fornitori con la Russia titolare del 31% del mercato kuwaitiano seguita dagli Usa (27,6%) e dai maggiori produttori europei con il 24,1%.
I nuovi scenari
Tra i Paesi del Golfo sembra quindi esaurirsi l’ondata di acquisizioni di sistemi d’arma statunitensi che aveva caratterizzato i primi anni Novanta quale conseguenza diretta – sotto forma di ‘indennizzo’ per l’intervento contro l’Iraq – della nuova situazione politico-militare. Il fenomeno può essere in parte provocato dalla diminuzione delle entrate petrolifere, che spinge gli acquirenti a rivolgersi ai fornitori capaci di praticare i prezzi maggiormente competitivi o di offrire accordi di compensazione di carattere industriale e commerciale (offsets) vantaggiosi per l’acquirente.
Non bisogna trascurare anche una serie di fattori politici, quali le difficoltà crescenti che incontrano gli Usa nel consolidare la loro presenza nel Golfo Persico ed i rapporti con le caste petrolifere al potere, l’insofferenza di queste ultime per una sudditanza asfissiante che mette a repentaglio la stabilità interna di quei Paesi, percorsi da un diffuso sentimento anti-statunitense e anti-occidentale, e la diminuita efficacia degli spauracchi iracheno e iraniano agitati da Washington per convincere gli alleati a pagare il prezzo politico ed economico della presenza Usa. Dopo che l’Arabia Saudita non ha concesso agli Usa l’impiego delle basi militari posizionate sul suo territorio per condurre le operazioni in Afghanistan, le difficoltà statunitensi nell’area sono emerse con grande evidenza e un eventuale attacco all’Iraq, condotto nella speranza di superarle definitivamente, potrebbe sortire l’effetto contrario.
Neppure sul fronte dei due paesi maggiormente dipendenti dalle importazioni di armi Usa (Israele ed Egitto) la situazione appare tranquilla. Tra i due Paesi è ormai evidente da parecchi anni una rivalità che ha come posta in gioco l’accesso ai sistemi d’arma più sofisticati e costosi dell’arsenale statunitense. In corrispondenza con il precipitare della crisi in Palestina questa corsa agli armamenti ha ricevuto un impulso notevole: nel 2001 Israele ha concluso accordi per le importazioni di armamenti dagli Stati Uniti per 2,5 miliardi di dollari, cifra che colloca Tel Aviv al primo posto tra i Paesi in via di sviluppo. Il massiccio ordinativo si è concretato dopo che, a partire dal 1998, il governo israeliano non aveva perfezionato contratto di acquisizione alcuno. L’Egitto, dal canto suo, nel 2001 ha siglato contratti per l’importazione di armamenti per un ammontare di 2 miliardi di dollari, un livello pari al 77% del valore complessivo degli ordinativi nel periodo 1998-2001.
L’eterna rivalità
Nel ventennio trascorso dagli accordi di Camp David (1978) le amministrazioni di Washington e le grandi aziende del complesso militare-industriale Usa hanno quasi completato il ciclo di sostituzione degli armamenti di fabbricazione sovietica in dotazione alle Forze Armate egiziane con sistemi tecnologicamente più avanzati . L’operazione ha destato a più riprese le rimostranze e le preoccupazioni di Israele, timoroso per un eventuale ‘sbilanciamento’ a favore del Cairo delle potenzialità militari. Sovente le lamentele di Tel Aviv avevano soprattutto lo scopo di convincere gli Usa a garantire la fornitura ad Israele di sistemi d’arma dotati di tecnologie di punta. Non più tardi dell’ottobre del 2001, gli israeliani hanno tentato di impedire la fornitura all’Egitto del missile navale da crociera Harpoon Block II fabbricato dalla Boeing e conosciuto con l’appellativo di Tomahawk dei poveri, adducendo la motivazione secondo cui il possesso di quest’arma avrebbe spostato a favore dell’Egitto l’equilibrio delle forze navali.
Un ulteriore esempio di questa corsa agli armamenti è rappresentato dalla vicenda degli elicotteri d’attacco AH-64 Apache, per i quali l’Egitto aveva richiesto, nel settembre del 2000, l’aggiornamento dalla configurazione denominata A a quella D, maggiormente potente e sofisticata, già in dotazione alle IDF e ampiamente utilizzata in questi mesi negli attacchi contro le città palestinesi. Nel giro di poche settimane, mentre l’amministrazione Usa accettava la richiesta del Cairo, provvedeva anche ad acconsentire alla richiesta israeliana per una nuova fornitura di questi velivoli.
Arrivano nuovi mercanti
Nonostante i forti legami con Washington, Israele sta tentando di ricorrere in parte a nuovi fornitori, soprattutto quando difficoltà di carattere politico e finanziario o le necessità indotte dall’esigenza di promuovere le esportazioni dell’industria militare israeliana rendono più problematiche le relazioni con gli Usa. Tel Aviv si è rivolta ai principali paesi esportatori di armamenti europei (in primo luogo alla Germania), alla Cina e alla Turchia, paese con il quale sono stati conclusi importanti accordi di collaborazione in campo militare-industriale.
Non è da escludersi anche un ricorso alle importazioni dalla Russia, magari nell’ambito di un accordo generale di collaborazione nel settore – ostacolato sinora da condizionamenti politici ed economici – che veda coinvolta anche la Turchia; Mosca sta attualmente rilanciando in grande stile le proprie esportazioni di armamenti nel Vicino Oriente, puntando molto su mercati ‘tradizionali’ quali Iran (in forte concorrenza con le esportazioni cinesi), Algeria, Egitto e Siria ed allargando la propria presenza, grazie alle condizioni economiche competitive rispetto a quelle praticate da statunitensi ed europei, agli Emirati Arabi Uniti, al Kuwait e alla Giordania.
·