Uccidetemi qui
“Uccidetemi qui, uccidetemi subito. Tanto il mio destino è segnato. Vi risparmio la fatica di rimpatriarmi. Uccidetemi qui”. Lo grida dalle inferiate del recinto di un Centro siciliano un bengalese che da lì a poche ore sarà rispedito al mittente. Me lo testimoniano Tana de Zulueta e Nicoletta Dentico che sono impegnate insieme ad altri parlamentari nel documentare le condizioni di vita delle persone immigrate ristrette nei cosiddetti Centri di Permanenza Temporanea. Una vita condannata a morte? E quante saranno? Chi controlla scrupolosamente che tra i rimpatriati vi siano persone per le quali quel viaggio equivale esattamente a una condanna a morte? Non è forse per scampare alla morte per fame e per persecuzioni che quelle persone affrontano un viaggio della speranza su imbarcazioni di fortuna, affidandosi a persone senza scrupolo, preferendo mettere a repentaglio in quel modo la propria vita che tanto è già a rischio nel villaggio da cui provengono? Sempre più spesso si sente ripetere che tra gli immigrati clandestini possono nascondersi temibili terroristi o kamikaze invasati. Non saprei rispondere sui primi.
Ma coloro che affrontano il mare rischiando la propria vita somigliano tanto ai kamikaze palestinesi mossi dalla disperazione e dalla consapevolezza che non c'è molta differenza tra la morte in mare e la vita di stenti, di umiliazioni, di tortura… cui sono quotidianamente sottoposti. Ma ci siamo mai chiesti come si sentano quelle donne e quegli uomini che dopo le peripezie e i mille pericoli affrontati per approdare sulle nostre coste, poi si vedono sprezzatamente rispediti al mittente? Eppure i volti dei “clandestini” che vengono intercettati al largo delle coste italiane mi paiono sempre più rassegnati. Il rimpatrio forzato dopo un esame molto sommario della loro posizione è un destino ormai segnato. In quei volti è possibile leggere il sapore amaro della sconfitta e della delusione di fronte ad un progetto infranto in un sol colpo, in un attimo. Un progetto costato tutti i risparmi di una vita di lavoro e la sofferenza di un viaggio a rischio della stessa vita.
Ma accanto a tutto questo mi pare oggi vada diffondendosi una sorta di malcelata rassegnazione anche in tanta parte della società civile che nel passato è stata più decisamente schierata al fianco di queste persone la cui dignità va salvaguardata e difesa. Ho come la sensazione che si stia progressivamente abbassando la guardia di fronte alla constatazione inconfessata che tutto sommato le politiche di contrasto all'immigrazione illegale ormai si sono consolidate nella prassi e nella consuetudine del nostro Paese e che non si può sperare di cancellarle o riformarle. No. Io mi ribello. Se il rimpatrio equivale ad una tragica condanna a morte, io mi rifiuto di far parte del plotone di esecuzione e la mia coscienza mi rimprovera se mentre il comandante grida: Fuoco! Io mi giro dall'altra parte o mi tappo le orecchie per non sentire gli spari. Il rumore dei fucili che in un solo colpo stroncano, vita, sogni e progetti… ora si è fatto assordante e riempie l'aria. L'urlo dei condannati trascinati al patibolo è lancinante. Non ci sto a far finta di niente!
Rispetto alle argomentazioni – sottili o grossolane ma tutte rispettabili – che riguardano la sicurezza e il lavoro degli italiani forse dobbiamo provare ogni tanto a ribaltare i punti di vista per guardare a questa sporca faccenda dal punto di osservazione dei disperati. “Bisogna avere in corpo l'occhio del povero” ci ricordava don Tonino Bello, e noi continuiamo a guardare alle guerre, all'economia globale, all'immigrazione, ai diritti umani dai nostri porti e non dalle loro imbarcazioni. “Uccidetemi qui, uccidetemi subito”.