SUD

Donne tra mafia e alternative

La donna è sempre stata fondamentale nel replicare e rafforzare valori e cultura mafiosi. E tocca alle donne della società civile elaborare valori e culture diverse.
Pino De Luca (Libera, associazioni nomi e numeri contro le mafie)

La letteratura esistente, sia folk che più impegnata, concorda in larga parte nel definire il ruolo della donna nella società meridionale come passivo e subalterno, ritagliato nello spazio domestico e interpretabile soprattutto attraverso lo schema antropologico del codice onorifico. È, io credo, una delle tante comode leggende che consentono di semplificare in nolo o in malo una realtà che è molto più complessa.
Di fatto, la donna, nella realtà meridionale forse più che altrove, in ragione della sua maggiore responsabilità e abilità nella tutela della specie è il soggetto biologico che più dell'uomo tende alla replicazione e al rafforzamento dei valori che ha assorbito. Questo vale per tutti i valori, siano essi relativi alla religiosità, alla buona educazione o alla mafiosità.
Credo sia necessario premettere la seguente definizione (tratta da Umberto Santino) per aiutarci a proseguire in maniera comprensibile: “Mafia è un insieme di organizzazioni criminali, di cui la più importante ma non l'unica è Cosa nostra, che agiscono all'interno di un vasto e ramificato contesto relazionale, configurando un sistema di violenza e di illegalità finalizzato all'accumulazione del capitale e all'acquisizione e gestione di posizioni di potere, che si avvale di un codice culturale e gode di un certo consenso sociale”.

Un codice da perpetuare
Gli elementi sui quali invito a soffermare l'attenzione sono gli ultimi due: il codice culturale e il consenso sociale, in quanto caratteristiche fondamentali che socialmente distinguono una semplice organizzazione criminale da una organizzazione mafiosa.
Chi, se non una madre di famiglia, può garantire il perpetuarsi di un codice culturale? Chi se non una donna di casa morigerata, affettuosa, che tiene ai figli e alla casa, che ha rapporti con il vicinato e non si dimentica mai un dovere, può garantire consenso sociale?
E allora, già nella classica definizione di ruolo, la donna è stato e continua a essere elemento fondante della cultura mafiosa, di ciò che definiamo mafiosità.
È d'altra parte evidente un altro aspetto: l'ideologia maschilista, propria del contesto sociale non di quello mafioso, ha sempre rifiutato di considerare la donna come soggetto detentore di poteri.
“Pur nel mutevole evolversi dei costumi sociali, non ritiene il Collegio di poter con tutta tranquillità affermare che la donna appartenente a una famiglia di mafiosi abbia assunto ai giorni nostri una tale emancipazione e autorevolezza da svincolarsi dal ruolo subalterno e passivo che in passato aveva sempre svolto nei riguardi del proprio ‘uomo', sì da partecipare alla pari o comunque con una propria autonoma determinazione e scelta alle vicende che coinvolgono il ‘clan' familiare maschile”. Questo passo estratto da una Roma 2004 - Commemorazione di Rita Atria sentenza del tribunale di Palermo del 1983 segna una palese contraddizione con quanto Angela Russo, 74 anni, detta “nonna eroina” sostiene in dibattimento: “Quindi secondo loro io me ne andavo su e giù per l'Italia a portare pacchi e pacchetti per conto d'altri. Dunque io che in vita mia ho sempre comandato gli altri, avrei fatto questo servizio di trasporto per comando e conto d'altri? Cose che solo questi giudici che non capiscono niente di legge e di vita possono sostenere”.
Scorrendo nel tempo le vicende relative alle organizzazioni criminali si evidenzia che la donna in esse ha sempre avuto un ruolo, di sostegno logistico e, recentemente sempre più spesso, anche operativo.
Alcune vicende recenti e recentissime, solo per citarle, mostrano figure di grande spicco nella organizzazione mafiosa: clan Casamonica (Roma), il ruolo che le donne (Anna Di Silvio, Dora e Mirella Casamonica) ricoprivano è il ganglio centrale in ogni organizzazione mafiosa che si rispetti: riciclavano il denaro.
Sono anni che in Puglia, o per meglio dire nelle Puglie, le donne hanno ruoli fondamentali nella direzione strategica e nel comando delle organizzazioni criminali. Raramente sono emerse nei processi e nei fatti di sangue perché le mafie pugliesi hanno avuto e hanno caratterizzazioni territorializzate (Garganico, Foggiano, Cerignolese, alto Barese, Murgia, Bari, Sud Barese – Nord Brindisino, Tarantino, Taranto Ovest, Brindisino, Mesagnese, Nord Leccese, Leccese Ovest, Salento) a volte in contatto ma con forte autonomia. Ma se si osservano attentamente, nella perpetuazione delle “famiglie” chi ha mantenuto la cultura mafiosa sono molto spesso le donne.
In qualche caso sono venute alla ribalta per fatti diretti anche di sangue, basta ricordare la faida famigliare dei Modeo a Taranto che vedeva fra i protagonisti Cosima Ceci (Memena ‘a Cece) impegnata nella eliminazione di suo figlio (sic!) Antonio Modeo (‘u Messicanu), reo di non accettarne l'autorità e di volersi mettere in proprio.
È grazie a una donna (Lucia Rizzi, cantante di un gruppo musicale, i Milk & Coffee) che il fratello Giosué, boss della “società” foggiana si introduce al traffico di stupefacenti.
Il ruolo di Domenica Biondi, detta Mimina, moglie di Giuseppe Rogoli – mesagnese – fondatore della Sacra Corona Unita, nel mantenere il gruppo storico della SCU in coesione è sottolineato da moltissime relazioni della Dia e numerosi atti processuali.
La funzione di Maria Rosaria Buccarella, sorella del boss Salvatore di Suturano (Br), che ha continuato per anni a gestire gli “affari di famiglia” nel ruolo di capo indiscusso.
E ancora Ilde Saponaro (detta Gilda) moglie del boss di Campi Salentina Gianni De Tommasi, che oltre a essere il capo clan in assenza del marito, ha mostrato capacità relazionali anche con vertici istituzionali tanto da portare al trasferimento di magistrati e all'apertura di processi penali a carico degli stessi.
Infine, in tempi recenti Liliana Campana, ventiduenne a capo dell'omonimo clan, arrestata nel giugno scorso, che aveva messo nel conto anche l'omicidio di Domenica Biondi, giusto per far capire che i tempi erano cambiati…

Un gap da colmare
Mi fermo qui con gli esempi (si potrebbe continuare per molto ancora) per invitare a una riflessione: tutte le compagne o le madri o le sorelle dei mafiosi sono soggetti di mafia? Certamente no, come non tutti i “mafiosi” sono mafiosi.
“E vanno a dire mafioso a questo, mafioso a quello. Ma che scherzano? Siamo arrivati a un punto che un pincopallino qualsiasi che ruba subito è mafioso” (Angela Russo).
Ci sono uomini e uomini, donne e donne. Uomini che se vengono arrestati lasciano la famiglia in condizioni di indigenza, uomini “mafiosi”, magari crudeli e capaci di azioni orrende ma che non hanno nessun potere economico, il loro reddito deriva dalla capacità di azione, se vengono arrestati la loro famiglia campa se il boss la fa campare, o vive condizioni di povertà indicibile se il boss cambia o li abbandona. Le donne di questi uomini ma anche loro stessi sono mafiosi per il codice penale, magari anche per cultura, ma sono mafiosi di mezza tacca, non hanno soldi e non hanno potere, semplici marionette in mano al boss di turno.
Ci sono invece altri uomini, adesso anche loro, che, a volte, vanno in carcere, ma sono rispettati, pagano fior di avvocati e la loro famiglia gode di benessere e di rispetto. Sono mafiosi veri e alle loro spalle hanno una donna che perpetua la cultura mafiosa.
Non è difficile capire, basta osservare con un po' di attenzione. Io credo che non sia difficile combattere le mafie, anzi, la storia e la cronaca mostrano che abbiamo organi investigativi e magistrati che sanno farlo e sanno farlo bene. Ma se le mafie si riproducono e si espandono è evidente che la battaglia degli organi di polizia e di magistratura non ha sbocco positivo. Le mafie hanno un codice culturale, producono cioè modelli e cultura mafiosa, alimentano la mafiosità sociale sulla quale nulla possono le forze di polizia e la magistratura.
Tocca ad altri produrre cultura che demolisca i modelli mafiosi, tocca a quella che si chiama società civile e, soprattutto tocca alle donne della società civile.
E già, tocca proprio alle donne sviluppare e propagare i modelli non mafiosi. Ve ne sono di donne operative in questo campo, donne straordinarie per coraggio e semplicità, per impegno e capacità, ne cito una per tutte: Rita Borsellino.
Ma davvero gli uomini della società civile sono pronti a “farsi comandare” da donne come Rita? Qui è il gap culturale fra le mafie e coloro che le vogliono combattere, i mafiosi non hanno “ideologie” che impediscono di “essere comandati” da donne. Coloro che li contrastano o che dicono di farlo di fatto devono colmare ancora un ritardo culturale. Forse, in questo modo, riusciremo a contrastare con successo la mafiosità.

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