AAA cercasi immigrati
La cooperazione mediterranea della U.E. è adeguata ai veri bisogni di popoli che si vogliono aiutare? L'interrogativo ha una giustificazione evidente: l'aggravarsi dei problemi che coinvolgono in gran parte l'area africana e asiatica del Mediterraneo. Di fronte a noi sono i casi tragici dei conflitti di zona, il dramma degli immigrati, i dislivelli e gli squilibri economici e sociali di realtà, pur dotate, spesso, di notevoli risorse naturali.
Il terrorismo e i flussi migratori sono la punta dell'iceberg di queste tensioni. Circa quest'ultimo fenomeno, una valutazione attenta mette in luce tutti i limiti e le insufficienze di una cooperazione impostata, sostanzialmente, in termini economicistici, orientata alla costruzione di un nuovo mercato, funzionale soprattutto al prioritario rafforzamento degli
interessi europei. È proprio questa impostazione che non produce buoni frutti; da qui l'urgente necessità di voltare pagina.
Tutti riconoscono che la povertà, la miseria, il bisogno di sfuggire da situazioni conflittuali e di non democrazia, sono alla base di questi flussi. Domandiamoci allora, in prima battuta: cosa ci si può aspettare nel prossimo futuro in termini di flussi migratori? Quindi, in un secondo passaggio: questi flussi sono regolabili; e se sì, in quale modo?
Mediterraneo cresce
Recenti studi (vedi ad esempio Livi Bacci) hanno valutato gli scenari di quanto può accadere in Europa nell'arco di tempo dal 2000 al 2025. Senza l'apporto dell'immigrazione l'Europa registrerebbe un forte calo demografico, dal momento che negli ultimi tre decenni le nascite hanno avuto un calo molto accentuato, come molto bassa si è rivelata la propensione ad avere dei figli. Secondo l'ONU, se consideriamo il continente europeo nel suo complesso, dall'Atlantico agli Urali, senza l'immigrazione, la popolazione dell'intera Europa scenderebbe da 727 milioni di abitanti del 2000 a 603 milioni del 2025; mentre nello stesso periodo la popolazione del Nord Africa – i Paesi del Mediterraneo e il Sudan – salirebbe da 174 milioni a 304 milioni. Siamo di fronte a due tendenze opposte: una, di forte calo nel continente europeo e una di forte crescita, nell'area mediterranea. Proviamo, allora, ad approfondire il confronto. Se consideriamo il rapporto fra i bambini e i genitori-adulti risulta che nell'Europa dei 15 Paesi membri, ad aprile 2004, questo rapporto è di 68 bambini per 100 genitori-adulti. Ma anche nei 10 Paesi, entrati a far parte dell'Unione lo scorso primo maggio, il rapporto non è migliore: infatti esso è pari a 61 bambini per 100 genitori adulti. Lo stesso si registra per i sette Paesi dell'area balcanica dove tale rapporto è di 69 bambini per 100 genitori-adulti. In questi dati c'è tutto il deficit di popolazione che si registra oggi – e si registrerà sempre più nel futuro – sia nell'Europa allargata a 25, sia in una possibile Europa che arrivi a comprendere anche tutta l'area balcanica.
Invece, sul fronte degli altri Paesi del Mediterraneo vi sono tassi di natalità decisamente alti. Ad esempio, in Turchia il rapporto è attualmente di 111 bambini per 100 genitori-adulti, nel Magreb il rapporto è di 135 a 100, in Egitto il rapporto è di 155 a 100. Anche il tasso di fecondità, che misura il numero medio dei figli per ogni donna, svolge un ruolo fondamentale. Nell'area europea questo tasso di fecondità è attualmente pari a 1,4; nell'area del Balcani a 1,6. Invece nell'area del Mediterraneo ha i seguenti risultati : in Turchia è pari al 2,5, in Egitto è pari a 3, in Tunisia è pari a 2, in Marocco e Algeria è pari a 2,5.
Di fronte a questi dati, è ovvio, quindi, che l'Europa deve aspettarsi dei flussi migratori consistenti e continui – di cui avrà assolutamente bisogno per il funzionamento del proprio sistema produttivo – e ciò in virtù dei diversi andamenti demografici, di natalità, di fecondità con i Paesi dell'area del Mediterraneo. Facciamo un ulteriore passo in avanti e domandiamoci ancora: cosa è probabile che accada?
Mal d'Africa
Riguardo al proprio sistema produttivo, l'Europa potrebbe anche non aver bisogno di immigrati, così dicono gli economisti, nell'agricoltura e nell'industria, dove, di fronte alla carenza di manodopera dovuta al calo demografico, potrebbero essere trovate delle risposte sviluppando al massimo la produttività del lavoro, con il ricorso a nuove tecnologie e nuovi metodi produttivi. Ma nel settore dei servizi, nei quali il grado di aumento della produttività è molto basso, al limite è nullo – come nei servizi alla persona, quelli culturali, sociali, interpersonali – il discorso cambia completamente. In questi settori l'Europa avrà una crescente necessità di immigrazione.
È chiaro che nei singoli Paesi europei, questa necessità sarà maggiore laddove è più alto il calo demografico. A questo proposito va ricordato che, in Europa, non tutti i Paesi registrano lo stesso calo demografico. Le situazioni
sono ben diversificate. Ci sono Paesi come la Francia e la Gran Bretagna che sono, tutto sommato, vicine all'equilibrio demografico; ben diversa e sulla linea di un netto declino demografico è la situazione dell'Italia, della Germania e della Spagna. In questi casi le maggiori differenze sono legate al grado di efficienza dello Stato sociale e a quell'insieme di sicurezze e di tutele che lo Stato offre al cittadino. Quanto più si tende a smantellare il sistema delle sicurezze sociali, creando delle condizioni di precarietà e incertezza sul sistema di vita, tanto più si accentua il calo demografico. Per questa ragione si può ragionevolmente ipotizzare che le realtà europee maggiormente bisognose del contributo degli immigrati saranno quelle dove più a fondo si è modificato in questi anni – e si sta modificando ancora – il sistema delle sicurezze sociali.
Dal lato dell'Europa, dunque, il maggiore o minor bisogno del contributo di immigrati è legato sostanzialmente al successo o meno di una politica europea di piena occupazione e al mantenimento o meno dello stato sociale. Insomma, è agendo con successo su queste leve che l'Europa potrebbe anche non aver bisogno del contributo degli immigrati. Ma il verbo al condizionale è d'obbligo perché, come si sa, sono tutte questioni aperte e oggetto di un forte confronto politico.
Dal lato dei Paesi mediterranei, non europei, cosa può accadere?
La maggiore spinta all'emigrazione, si è detto, è legata alla grande e crescente differenza in termini di povertà e di ricchezza. Secondo il Rapporto 2003 della World Bank, in Europa, nel 2002, il reddito pro capite dei 15 Paesi dell'Unione era di circa 22.000 dollari, quello dei 10 Paesi che avrebbero aderito nel 2004 era di 5.000 dollari, nell'area dei Balcani era di 2.000 dollari. Nello stesso anno 2002, la Turchia ha registrato un reddito pro capite di 2.500 dollari, mentre la media dei Paesi nord-africani è di 1.500 dollari. Tuttavia esistono almeno tre fattori che possono ridurre col tempo la spinta ai flussi migratori.
Tre fattori
Il primo è il tasso di natalità nei Paesi nord-africani che ha una tendenza a diminuire. Quanto più migliora il tenore di vita, il livello di formazione culturale, l'impiego delle donne nel lavoro, tanto più, ad esempio, diminuisce il tasso di natalità. Nella società islamica fino agli anni '70 il controllo delle nascite era pressoché sconosciuto. Inoltre l'età del matrimonio era molto bassa, sotto i venti anni. Di conseguenza il numero medio dei figli per una donna oscillava fra i 6 e i 7 figli. Oggi, ad esempio nel Maghreb, si è scesi a una media del 2-2,5 figli per donna. Inoltre in questi Paesi si è elevata l'età del matrimonio, che è intorno ai 27-28, un fatto che tende a ridurre con il tempo il tasso di natalità e, conseguenza ultima, la spinta a emigrare.
Il secondo fattore riguarda la differenza salariale, tra quello che un lavoratore può guadagnare, ad esempio, in Africa e quello che può guadagnare in Europa. Le statistiche confermano che quanto più questo rapporto scende sotto 5/1 oppure 4/1 (5 oppure 4 volte di più in Europa che in Africa), tanto più diminuisce per un africano il desiderio e la spinta a emigrare. Fatti i suoi conti, dei vantaggi e degli svantaggi che gli possono derivare con l'emigrazione, il potenziale emigrato, se non è costretto da altre cause, preferisce restare nel suo Paese di origine.
Il terzo fattore è legato alle condizioni di sicurezza sociale. Se in un Paese migliorano i sistemi di assistenza, di sicurezza sociale, di istruzione, le protezioni alle famiglie, gli svantaggi economici possono essere compensati dai maggiori vantaggi sociali e dagli stimoli a costruire nel proprio Paese delle situazioni per avviare il proprio avanzamento economico. In altre parole: il bisogno economico può spingere una persona a emigrare, mentre la sicurezza sociale può frenare tale spinta.
Dal lato dei Paesi mediterranei non europei, dunque, la spinta all'emigrazione può essere contenuta, e al limite, annullata, nella misura in cui accanto alle politiche di sviluppo economico, anzi, prima di esse, sono promosse le politiche di sicurezza sociale, dell'istruzione, della cultura.
Insomma – è questo il punto essenziale del nostro discorso su cui riflettere – sia in Europa, sia al di fuori di essa, la variabile strategica per regolare i flussi migratori è legata allo sviluppo di politiche sociali adeguate.
Dove guarda l'Europa
Invece, la cooperazione della U.E., che è definita di “impostazione globale mediterranea” (dalla Conferenza di Barcellona del 1995 in poi) in concreto segue un approccio che punta sostanzialmente, lo si legge nei documenti ufficiali, a contribuire alla crescita dell'economia di impresa, dando priorità ai settori dell'ambiente, dei trasporti, dell'energia e della cooperazione regionale.
Insomma, l'Europa tende a mantenere in sottordine proprio quel tipo di impostazione, relativa agli aspetti dello sviluppo sociale e culturale, che sarebbe ben più utile e strategica al fine di regolare e riequilibrare i movimenti dei popoli. È questo il nodo politico, etico e culturale che tutti dovremmo concorrere a sciogliere al più presto.
Già uno dei padri fondatori dell'Europa comunitaria, Jean Monnet, ideatore e primo presidente della C.E.C.A, aveva riconosciuto tutti i limiti di questo approccio economicistico nei processi di integrazione. Parlava, ovviamente, dell'Europa ed era al termine della sua vita. Alla luce dell'esperienza fatta, riconobbe senza mezzi termini che prima della integrazione economica si sarebbe dovuta promuovere l'integrazione culturale, più utile e opportuna. Questa riflessione dovrebbe valere, fatti gli opportuni adattamenti, anche nei confronti dei rapporti fra l'Europa e le realtà extra-europee, a cominciare, appunto, da quella mediterranea.