STRATEGIE

L'oblio, arma della geopolitica

In uno scenario globale che accetta la guerra come necessità, è ancora plausibile parlare di conflitti dimenticati? Dimenticati da chi? E perché?
Nicoletta Dentico

Non possiamo non cominciare dall'orrore di Beslan, per inaugurare un excursus sui conflitti dimenticati del pianeta. Ancora una volta impietriti dall'impotenza, non possiamo non partire dalle agghiaccianti sequenze della lontana Ossezia, per cercare nuove domande o forse formulare altre prove di risposta.
Una delle lezioni dell'attacco alla scuola il 1 settembre scorso (questa ennesima tragedia della storia ha avuto inizio a 65 anni esatti dall'inizio della Seconda Guerra Mondiale, e con quel deflagrante impatto di violenza rischia di essere a sua volta uno degli eventi destinati a influire sugli avvenimenti futuri) è che veramente il sonno della ragione partorisce mostri, ma questo sonno ha radici di disperazione lontane, è talvolta risposta estrema alla cinica indifferenza, eredità di una rimozione collettiva che avvolge conflitti abbandonati a se stessi da troppo tempo. Eredità incancrenita in una scabrosa voluttà di violenza che non trova argini nella comunità internazionale.
Non cerchiamo improbabili giustificazioni a disumane strategie, colpevoli per giunta di fare il gioco dell'avversario di turno; pur nello stordimento di queste settimane, tuttavia, non vogliamo cedere alla tentazione che la storia possa farsi con le reazioni emotive.
In questo senso, come la stampa russa più coraggiosa ha messo in evidenza, il mattatoio di Beslan interpella il presidente Putin per la decennale efferata Afghanistan - Bambini e guerra gestione della questione cecena, l'unica ai cui massacri abbiamo volto occasionalmente uno sguardo distratto e scoraggiato.
Ma dietro le due guerre in Cecenia, la distruzione di Grozny, i massacri dei civili (tra cui 20.000 bambini) si nascondono i pezzi di un complicato puzzle geopolitico che non cessa di bollire sulle frontiere meridionali dello Stato russo, con almeno una mezza dozzina di conflitti legati l'uno all'altro da ragioni politiche, etno-nazionalistiche o economiche, che nell'imbrogliata matassa del Caucaso faremo bene, d'ora in poi, a ricordare.

Effetti collaterali
Nella logica degli Stati è previsto che il mantenimento dell'ordine a livello internazionale – ma anche nazionale o regionale – esiga la sua quota di vittime
. Il sacrificio di vite afgane durante l'operazione “Enduring Freedom” nel 2001, la morte di liberiani e sierraleonesi durante il processo di pacificazione della Sierra Leone, o quello di ivoriani in vista degli accordi di Accra del 30 luglio scorso, sono danni messi in conto dai corifei dell'ordine esistente, o da quanti ritengono che la costruzione di assetti geopolitici più confacenti nel mondo (si veda ad esempio il passaggio dall'egemonia francese all'influenza americana in talune aree dell'Africa), o il mantenimento degli standard di vita dei cittadini abbienti delle società industrializzate, prevedano l'inevitabile prematura estinzione di una porzione di umanità.
Lo stesso dicasi per il messianico monopolio del “bene”, o la ragione della “civiltà”.
L'esecuzione della sentenza può assumere i connotati spettacolari della violenza mediatica, ovvero della catastrofe sottaciuta. Conflitti talora bulimici, talora anoressiche crisi passate sotto silenzio. Più spesso, la condanna è così perfettamente integrata nel contesto sociopolitico da risultare praticamente invisibile: un'estinzione lenta che passa per la progressiva negazione dei beni essenziali alla sopravvivenza – l'acqua, il cibo, l'abitazione, la salute. Un'umanità a perdere prevista dal sistema, in altre parole. “Non fa molta differenza il modo in cui una società seleziona i criteri dell'infamia che le permettono di separare quanti possono vivere da coloro che possono o devono morire”, scrive Jean-Hervé Bradol nel bellissimo libro In the Shadow of Just Wars curato da “Médecins Sans Frontières”, “[…] la mente umana, dotata di immaginazione senza limiti, è capace di ridefinire quei criteri a seconda delle più recenti nozioni di società ideale”.
In questo architettato scenario di sommersi e salvati, è ancora plausibile parlare di conflitti dimenticati? Dimenticati da chi? E perché? Non ha più senso ragionare di un nascondimento voluto, di un oscuramento perseguito per puro cinismo, ma spesso solo per incompetenza, in un gioco perverso della geopolitica che edifica connivenze e complicità del tutto trasversali e inattese? La comunità internazionale degli Stati non può ignorare e non ignora di fatto i conflitti armati, le cui ramificazioni sono decisamente ampliate dalle dinamiche dell'era della globalizzazione. Solo che ha diversi modi per scatenarne o modularne i meccanismi.
La fine della Guerra Fredda aveva fatto scaturire l'idea di un sistema politico internazionale in grado di giocare d'anticipo sulle guerre attraverso un complesso meccanismo di negoziati, di mediazioni tra parti belligeranti, di circostanziate imposizioni della pace. Dopo il crollo del Muro di Berlino, molti credevano che una prodigiosa miscela di libero mercato e democrazia avrebbe trasformato il mondo in un pacifico consorzio di nazioni moderne e civili, in cui non solo i confini geografici, ma anche umani, sarebbero stati abbattuti, per “trasformare tutti gli amici e nemici in ‘concorrenti'”, stando all'ottimistica formula di un sostenitore convinto di questa tesi come Thomas Friedman.
Una pia illusione. In realtà gli interventi internazionali si sono moltiplicati per rispondere all'inasprimento della violenza sul pianeta. Dal 1988 al 1992, l'ONU si è trovata a gestire tante operazioni militari quante ne aveva intraprese nei precedenti quattro decenni; una tendenza prolungatasi negli anni successivi, pur restando l'intervento un'eccezione e non la regola nella gestione dei conflitti sparsi nel mondo.

Tre modi per gestire i conflitti
Con qualche semplificazione, tre sono le tipologie di approccio adottate di volta in volta, almeno fino alla guerra anglo-americana in Iraq nel 2003.
Un approccio è quello dell'intervento armato contro uno dei belligeranti, nel segno della sicurezza collettiva e della ingerenza umanitaria in un contesto (a eccezione dell'Iraq) di uso della violenza sui civili. Si tratta della “guerra giusta” che ha giustificato le operazioni militari in Somalia (1992), in Bosnia (1995), in Kosovo (1999). Ma l'inerzia dei caschi blu dell'ONU durante il genocidio ruandese nel 1994, il miserabile abbandono della Somalia nel 1993 e i massacri della Bosnia nel 1995 hanno ampiamente dimostrato che la protezione della popolazione non è mai stato l'obiettivo prioritario di questa recrudescenza di interventismo militare internazionale. Macchiato dal sospetto che potesse servire perlopiù alla difesa degli interessi dei più potenti, il diritto di ingerenza è stato ri-definito nel concetto di “guerra preventiva”, a uso e consumo della lotta permanente contro il terrorismo.
Una seconda modalità è quella del coinvolgimento attraverso l'intervento umanitario, in una logica di contenimento della crisi, tale da non danneggiare gli interessi delle nazioni più potenti nell'area del conflitto. L'azione umanitaria diventa qui sofisticata arma di geopolitica, alla ricerca della massima visibilità poiché strumento in grado di coprire la disastrosa immagine di una comunità internazionale incapace di prevenire i massacri, la fame e le epidemie. Si tratta dei mediatici programmi di aiuto stile Sudan (1998 e 2001) o Angola (2001) che servono a nutrire la solidale inquietudine delle opinioni pubbliche, ma lasciano le popolazioni civili in mano ai loro massacratori.
Infine, l'astensione da ogni interferenza, ovvero una determinata politica di laissez-faire. Riguarda i conflitti con il maggior numero di vittime, tuttora in corso: l'Algeria, la Colombia, la Cecenia, la Repubblica Democratica del Congo, il Burundi. Poiché la violenza sofferta dalla popolazione civile non è considerata questione di politica internazionale, l'opzione dell'indifferenza equivale a una autentica licenza di uccidere.
Il mancato interesse nei confronti della brutalità di questi conflitti impedisce del tutto la creazione delle condizioni di rispetto delle regole del diritto internazionale, a partire dall'accesso allo spazio umanitario. Siamo di nuovo alle violenze di Grozny, con i 100.000 morti ceceni dal 1994, i 400.000 sfollati su una popolazione di un milione di abitanti: tutto ciò con la silenziosa complicità del Consiglio di Sicurezza dell'Onu.
Quando la dimenticanza diventa colpa.

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