ULTIMA TESSERA

Verso la Pasqua col cuore in Iraq

È rientrata una delegazione di Pax Christi dall’Iraq. Terra martoriata da interessi e guerre, all’alba di nuove secessioni e crescente nazionalismo, alla gente serve speranza e solidarietà.
Renato Sacco

Lo scorso 20 febbraio è rientrata la delegazione ufficiale di Pax Christi in Iraq. Partita l’11 febbraio, era guidata da mons. Marc Stenger, vescovo di Troyes e presidente di Pax Christi Francia. In tutto 12 persone, di cui 10 francesi, con la presenza di alcuni giornalisti. A rappresentare Pax Christi Italia c’ero io. Alla delegazione si è unita anche Paola Gasparoli, dell’associazione “Un ponte per...”.

Il senso di questa visita lo si può trovare nelle parole che sembrano scritte oggi e che, invece – a conferma di una tragedia che dura da troppi anni, allorquando qualcuno aveva detto, inascoltato, che la guerra è avventura senza ritorno – sono state pronunciate da mons. Diego Bona, allora presidente di Pax Christi Italia, prima di partire per una delegazione in Iraq, il 4 giugno 1998 (ben dieci anni fa!). “La nostra presenza in Iraq ha innanzitutto lo scopo di esprimere la solidarietà alle famiglie irachene che pagano sulla propria pelle il prezzo altissimo di un dramma che non crea né attenzione, né soccorso internazionale”.

La delegazione rientrava in un progetto più ampio che, iniziato a gennaio, ha come obiettivo di vivere la ‘Pasqua con i cristiani d’Iraq’. Scrive mons. Stenger, al ritorno: “La nostra missione non era né politica né economica, ma spirituale. Noi ci impegniamo a essere i portavoce di quanti abbiamo incontrato, di quello che vivono, delle loro sofferenze e delle loro speranze... Noi siamo stati soprattutto nel nord dell’Iraq, nella provincia del Kurdistan iracheno. In una settimana abbiamo incontrato 26 comunità di cristiani rifugiati in quella regione, fuggiti principalmente da Baghdad e da Mosul, dove la loro vita era in pericolo e dove le loro condizioni dell’esistenza quotidiana erano divenute impossibili”.

La delegazione si è spinta solo fino a Kirkuk, una città cruciale per i grandi interessi del petrolio.

Un referendum per decidere se unire Kirkuk al Kurdustan iracheno era già in programma a novembre ma è stato rinviato forse a giugno, o forse non si farà mai. È una questione troppo delicata e complessa.

È il vescovo caldeo Luis Sako ad accogliere la delegazione per la messa nella cattedrale colma di gente, almeno 1500 persone, con la scritta sul portone d’ingresso: “Beati gli operatori di pace, perchè saranno chiamati figli di Dio”.

“La vostra solidarietà – ha detto il vescovo – ci aiuta a perseverare a rimanere e sperare. Speriamo che altri seguano questo esempio”. Dopo la messa la delegazione ha incontrato i rappresentati delle diverse Chiese: assiri, siri ortodossi, armeni ortodossi. E lunedì mattina l’incontro con diversi esponenti sciiti e sunniti e i membri del Consiglio civile della città. Da parte degli imam e degli altri religiosi musulmani c’è stato il comune riconoscimento che la strada per sconfiggere la violenza è l’incontro e il dialogo. Meno di un mese fa era scoppiata un’autobomba proprio dietro la cattedrale.

Ma nei giorni della delegazione in Iraq è stata fatta anche la proclamazione di indipendenza del Kossovo. Una notizia che – vista da quella terra, dove le tensioni sono molto forti, dove il Kurdistan spinge per diventare a tutti gli effetti uno Stato... in parte lo è già con bandiere, frontiere, lingua e forza militare propria – fa pensare... molto!

Qualcuno, in Iraq, ci diceva: è già deciso, presto l’Iraq sarà diviso in tre stati, è solo questione di tempo.

Lo scrive anche Fulvio Scaglione su avvenire del 27 gennaio u.s.: “La Casa Bianca ha favorito ovunque la formazione di Stati a base etnica e confessionale. In qualche caso sulla base di evidenti emergenze politiche e umanitarie (l’ex Jugoslavia, per esempio), in altri perseguendo con lucidità l’obiettivo. Pensiamo all’Iraq, oggi di fatto tripartito, con il Kurdistan sulla strada del Kosovo anche per quanto riguarda la presenza militare Usa”.

 

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