Comandante Lucia

Un dossier dedicato a Marinela García, nel XV anniversario della sua morte. In memoria di tutte le donne che hanno creduto, e che credono oggi, nei diritti umani e nella liberazione degli oppressi.
Alberto Vitali

Allorquando gli inviati dell’arcivescovado arrivarono all’obitorio Isidro Menéndez, dove finivano tutti i cadaveri rinvenuti nelle strade, nei canali e nelle discariche di San Salvador, per ripetere su di lei quel gesto che molte volte ella stessa e mons. Romero avevano compiuto in quel luogo, Marianela García Villas si era ormai compiutamente identificata con il suo popolo martoriato.

Era stata ferita e catturata, pochi giorni prima, il 13 marzo 1983, durante un’operazione del famigerato battaglione Atlacatl, nella regione di Suchitoto, a nord della capitale, dove si era recata per verificare e testimoniare l’utilizzo di armi chimiche, da parte dell’esercito, ripetutamente denunciate dai contadini.

A Marianela non lasciarono il tempo di documentare, ma – quasi per una sorta di nemesi della storia – le desolanti conseguenze di quelle atrocità, in particolare dell’impiego del fosforo bianco e del napalm contro la popolazione civile, sono ancora ben visibili nell’ambiente e li abbiamo potuti costatare direttamente, nei diversi viaggi organizzati da Pax Christi Italia negli ultimi anni.

Voce dei senza voce

Marianela fu quindi condotta alla caserma della “Scuola di guerra”, brutalmente torturata, uccisa e fatta ritrovare cadavere. Tre anni dopo l’assassinio di mons. Romero, il regime salvadoregno voleva in questo modo spegnere l’altra “voce dei senza voce” che risuonava nel Paese e all’estero; ma a differenza del martirio del suo arcivescovo, quello della giovane avvocata degli oppressi sarebbe rimasto impresso nella memoria di pochi, anzi pochissimi e più all’estero che in patria.

Così, nemmeno quest’anno, in cui ricorre il XXV anniversario di quel sacrificio, il suo Paese celebrerà alcunché di ufficiale e Marianela continua a scontare almeno due grossi “difetti”.

Il primo è quello di essere stata “donna”, in un Paese biecamente maschilista, come El Salvador, e in un contesto internazionale che, quanto a parità dei diritti, spreca ancora più parole che azioni.

Il secondo fu quello di essere “organizzata”, come dicono là, per indicare coloro che in un modo o nell’altro facevano parte di qualche organizzazione sociale (contadini, operai, sindacalisti…).

In un primo momento, costoro vennero considerati, a torto, “sovversivi” da parte del regime; poi in molti casi lo divennero effettivamente, confluendo nelle fila delle  diverse organizzazioni rivoluzionarie, che nel 1980 si fusero nell’FMLN.

In realtà, Marianela non partecipò mai a nessuna di queste organizzazioni.

Agli inizi degli anni Settanta aveva aderito alla Democrazia Cristiana salvadoregna ed era stata pure parlamentare per una legislatura, ma ne era uscita delusa; con alcuni amici aveva, quindi, fondato la Commissione per la Difesa dei Diritti Umani in El Salvador, di cui restò presidente fino al giorno della sua morte. Ma il maggiore Roberto D’Aubuisson, leader dell’organizzazione paramilitare di estrema destra ORDEN e riconosciuto mandante dell’assassinio di mons. Romero, l’aveva già denunciata come guerrigliera, in un programma televisivo, fin dal 1980, giungendo persino ad attribuirle il grado e il nome di “comandante Lucia”… e, si sa,  certe accuse sono dure a morire.

Rivoluzionarie e credenti

Ricordo con viva impressione quando, alcuni anni fa a Milano, una giovane salvadoregna, che con il suo gruppo mi aveva chiesto di presentargli la figura di mons. Romero, mi ha poi sinceramente confessato: “Io ti credo, ma devi darmi il tempo di rielaborare tutto: mi hanno cresciuta raccontandomi che Romero fosse un guerrigliero”. Così anche per Marianela il pregiudizio sopravvive; soprattutto nella mentalità di chi è troppo “cattolico” o anti-rivoluzionario per rischiare di contaminarsi con dei “guerriglieri”… oppure, al contrario, è troppo “rivoluzionario e materialista” per compromettersi con la memoria di una cristiana autentica, come fu Marianela. Questo, paradossalmente, è parte anche del terzo elemento che ancora oggi ne appanna la memoria: Marianela fu una vera cristiana, ma – per evidenti motivi – non un importante prelato, per quanto magari controverso come il suo arcivescovo, o un prete. Non fu nemmeno suora, così da potersi ricavare un angolo a margine dei nomi di quei sacerdoti e delle missionarie nordamericane, che essendo stati uccisi negli anni del ministero episcopale di Romero, furono associati al suo nome.

Marianela è stata e resta una “semplice” cristiana laica, ma di quella semplicità evangelica capace di arrivare alle estreme conseguenze del servizio e del martirio. Così oggi, in un Paese nel quale molti si inorgogliscono per cose di cui francamente sarebbe meglio tacere, nessuno sembra gloriarsi di uno dei fiori più belli germinati da quella terra e irrorato dal sangue di centinaia di migliaia di anonimi contadini.

Per fede ed esperienza però sappiamo che il seme caduto non muore, ma sempre misteriosamente fiorisce… già lo vediamo negli occhi di migliaia di donne che, come lei e María Julia Hernández, oggi come ieri, costituiscono la forza vitale e la speranza di quel popolo.

È questo l’augurio che facciamo alle nuove generazioni che, in patria e all’estero, pur senza saperlo, stanno crescendo più libere e sicure, anche nel nome di Marianela.

 

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