L’imprenditoria della paura
Mentre fuori la paura cresce. Quali responsabilità? Quale sicurezza cerchiamo?
L’omicidio di Garlasco, l’assassinio di Meredith, il delitto della metropolitana di Roma. Da Cogne in poi, in maniera crescente, i nostri tg si sono colorati di nero, un nero così fitto da oscurare il resto.
A fine novembre 2007 i giornalisti italiani si sono ritrovati a congresso. Hanno parlato molto del contratto che non hanno ancora. Eppure c’è stato un altro tema che ha suscitato consensi unanimi: la denuncia di un degrado dell’informazione per il quale “in nome degli ascolti la ‘macelleria’ e il gossip hanno occupato l’apertura dei telegiornali”. Le citazioni sono prese dalla mozione che, alla fine dei lavori, è stata approvata per acclamazione.
Trecento delegati hanno detto che non ne possono più del sensazionalismo come criterio preminente di scelta delle notizie; del rilievo che, soprattutto in alcuni programmi di rete (dalla “Vita in diretta” a “Porta a Porta” a “Matrix”), viene dato a certe vicende giudiziarie in funzione di un’attenzione ossessiva ai dati Auditel. I primi di febbraio, ci ha pensato anche l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni a richiamarci alle responsabilità di giornalisti.
Era appena cominciato, al Tribunale di Como, il processo per la strage di Erba: preceduto da un tambureggiante assalto, con legioni di telecamere ad accalcarsi in modo solo apparentemente più elegante delle centinaia di ‘persone comuni’ che sgomitavano per ottenere uno dei pochi biglietti riservati al pubblico e poter vedere da vicino “Rosa e Olindo” e Azouz Marzuk.
“Ferma restando la garanzia della libertà di informazione e del pluralismo – ha scritto l’Autorità – va scongiurata un’esposizione mediatica sproporzionata, eccessiva e/o artificiosamente suggestiva… evitando tra l’altro di trasformare il dolore privato in uno spettacolo pubblico”. Il testo non fa esempi, ma non ce n’è bisogno: che si trattasse di Annamaria Franzoni, di Erica, di Amanda e Raffaele, prima o poi tutti noi ci siamo imbattuti nell’ondata alluvionale che l’informazione sa produrre in certi casi.
Non manca mai, in occasioni del genere, qualcuno che dall’interno della categoria dei giornalisti risponda innalzando la bandiera della libertà dell’informazione. Stendardo nobile, ma talvolta sventolato a sproposito.
Informazione e sicurezza
A metà gennaio, la Commissione Affari Costituzionali della Camera, nell’ambito di un’indagine conoscitiva sullo stato della sicurezza in Italia che andava avanti da un anno e mezzo, ha pensato di convocare anche i direttori di tg e reti televisive. Partendo dalla constatazione di un crescente divario: quello fra l’evoluzione oggettiva dello stato della sicurezza e la percezione di insicurezza nei cittadini, in significativo aumento. Fra le ragioni di tale forbice la Commissione presieduta da Luciano Violante ipotizzava all’“ingresso sul campo criminale di nuovi soggetti, spesso portatori di livelli di violenza più elevati”, allo “stato di abbandono sociale di alcune aree metropolitane”, anche “l’incidenza del sistema dell’informazione, con particolare riguardo al modo in cui essa sceglie e presenta le notizie”. Niente di più che una registrazione delle tendenze e delle responsabilità attuali dell’informazione: fin troppo sobria, verrebbe da dire, se ricordiamo quali tempeste giornalistiche si siano scatenate ad esempio in occasione dell’assassinio di Vanessa Russo per mano della giovane immigrata rumena oppure dopo l’omicidio della signora Reggiani nella stazione romana di Tor di Quinto. E invece, alle sollecitazioni della Commissione, una parte dei direttori convocati (in specie quelli di casa Mediaset) ha risposto gridando al bavaglio: non accettiamo lezioni, non ci facciamo dettare la linea, non accettiamo di edulcorare il racconto della disastrosa realtà italiana di oggi. Come se ragionare sulle responsabilità dell’informazione volesse dire autocensurarsi.
L’altra cronaca
Non la pensano così, non la pensano come quei direttori, i tanti giornalisti che, nelle redazioni dei telegiornali e della carta stampata, chiedono al contrario di poterne fare di più, di cronaca. Ma non accettano che l’unico genere di cronaca sul quale ossessivamente esercitarsi sia quello delle tracce di liquido organico rinvenuto sugli abiti di Meredith nella casa di Perugia. È cronaca anche quella delle condizioni di vita e di morte nei luoghi di lavoro. Invece c’è voluta l’insistenza del Presidente Napolitano, ben prima della strage alla Thyssen-Krupp, per ricordarci che quattro vittime al giorno nei cantieri e nelle fabbriche non possono essere una normalità da liquidare nella colonnina delle “brevi”.
È cronaca anche quella delle vicende della criminalità organizzata e della lotta che gli apparati dello Stato fanno per contrastarla. Invece c’è voluta una voce esterna alla professione, come Roberto Saviano, per metterci sotto gli occhi il cancro che sta mangiandosi intere zone d’Italia.
È cronaca il racconto delle commistioni fra politica e affari. Invece è passato via senza quasi trovare spazio negli approfondimenti televisivi il racconto dello spaventoso scandalo della sanità calabrese, perché nelle ore in cui venivano pubblicate intercettazioni degne di un film dell’orrore tutta l’attenzione delle telecamere era concentrata sull’apertura del processo per la strage di Erba.
È cronaca la narrazione delle vite appese a un filo: quelle dei condannati a morte nelle carceri dei regimi dittatoriali, che dall’attenzione dei mezzi di comunicazione spesso possono essere letteralmente salvati. Invece preferiamo mantenere l’assedio alla villetta di Garlasco, per strappare a uno qualsiasi dei protagonisti, dei comprimari e perfino delle comparse un insignificante mozzicone di dichiarazione. Più cronaca, dunque: riducendo però l’attenzione ai delitti privati, e sapendo guardare meglio alle vicende in cui la storia dei singoli parla dei problemi di molti.
È chiaro che non stiamo discutendo soltanto delle responsabilità dell’informazione, quando ci occupiamo di sicurezza. Non è colpa esclusivamente nostra se, da dieci anni almeno, si è sviluppata “l’imprenditoria politica della paura”, cioè lo sfruttamento spregiudicato a fini elettorali dell’allarme sociale: cavalcata a briglia sciolta dal centrodestra, ma entrata nei programmi e nelle pratiche anche di larghi settori del centrosinistra. Campagne che hanno modificato le priorità dell’azione pubblica, di fronte alle quali l’informazione è stata talvolta parte consapevole della manovra politica. Più spesso, però, ha seguito la notizia a occhi chiusi, facendosi trascinare dal sensazionalismo, dando il microfono a chi urlava di più: quasi ignara delle conseguenze che innescava, rivendicando senza essere credibile l’innocenza dello “specchio” che rimanda l’immagine fedele di una società.
Una proposta
Sì, la politica c’entra. Ma sarebbe ipocrita farsi scudo delle sue bassezze. C’è un ruolo nostro, di chi lavora nella macchina dell’informazione, ne conosce gli ingranaggi e la disinvoltura con la quale a volte viene premuto il pedale dell’emozione, meglio se morbosa. E allora, proprio per provare a incidere su questi meccanismi, la mozione del Congresso Fnsi che citavo all’inizio ha avanzato una proposta, apparentemente minimale: una moratoria dei dati di ascolto dei tg, chiedendo che cessi la loro scomposizione minuto per minuto. Fornire solo il dato Auditel medio complessivo di un’edizione, “togliendo così a editori e direttori l’arma impropria delle curve di ascolto consultate la mattina come un oracolo, per decidere se raccontare l’efferato delitto o la repressione in Birmania, il gossip o l’emergenza delle morti bianche sul lavoro”. Restituire così a chi fa il giornale la responsabilità piena di decidere cosa sia davvero una notizia, senza nascondersi dietro la facile giustificazione che “è il pubblico che lo vuole”.
Sappiamo che non è tutto lì il problema; che ci sono problemi professionali e culturali profondi, alla base di questa torsione del giornalismo. Ma quella dell’Auditel può essere una leva utile da azionare, per far cambiare direzione alla macchina. Su questo obiettivo incalzeremo direttori ed editori.