PAROLA A RISCHIO

Il tempo della speranza

Nel XV anniversario della sua morte, le parole di don Tonino riecheggiano cariche di profezia. Gli dedichiamo queste pagine, affidando a don Diego Bona la nostra “Parola a rischio”.
Diego Bona (Vescovo emerito di Saluzzo e già presidente di Pax Christi Italia)

Coraggio. Alzatevi e levate il capo. Muovetevi. Fate qualcosa, il mondo cambierà. Anzi, sta già cambiando. Non li vedete i segni dei tempi? Gli alberi mettono già le prime foglie. E sul nostro cielo il rosso di sera non si è ancora scolorito.
[...] Qui sulla terra è l’uomo che attende il ritorno del Signore. Lassù nel cielo è il Signore che attende il ritorno dell’uomo. Ritorno che si potrà realizzare con la preghiera, con la vita di povertà, di giustizia, di limpidezza, di trasparenza, di amore, con la testimonianza evangelica e con una forte passione di solidarietà.
Mentre per questo cammino di ritorno ci affidiamo a Maria, Regina dei Martiri, Vergine dell’attesa e Madre della Speranza, mettiamo in pratica quel che ci suggerisce sant’Agostino: “Aiuta coloro con i quali cammini, per poter raggiungere Colui col quale desideri rimanere”.
Don Tonino Bello

Due cose emergono, con forza prorompente, da questo testo di don Tonino che “Mosaico di Pace” pone oggi alla nostra attenzione e meditazione:
- un pressante richiamo a impegnarsi, adesso, per le urgenze che il momento presenta e l’occasione che non dobbiamo lasciarci sfuggire;
- la forte connotazione della speranza, che accompagna costantemente la parola e l’azione del vescovo di Molfetta nella sua vita breve e intensa.
Ritroviamo le stesse caratteristiche che l’evangelista Marco sottolinea all’inizio della predicazione di Gesù, quando il paese di Zabulon e Neftali, Galilea delle genti, viene illuminato da una grande luce: “Il tempo è compiuto, il Regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al Vangelo”.
Muovetevi, fate qualcosa, il mondo cambierà”, leggiamo nel testo che abbiamo davanti. Ma è lui, l’indimenticabile don Tonino a muoversi per primo, a precedere e andare avanti, capace di coinvolgere e trascinare tante persone insieme con sé.
Anzi, (il mondo) sta già cambiando. Non vedete i segni dei tempi? Gli alberi mettono già le prime foglie”. È l’utopia della speranza, non nel senso di un miraggio lontano, ma della visione e della profezia, capaci di suscitare risorse inaspettate nel cuore dell’uomo, e da tenere alta, come un ostensorio, che viene posto in alto perché tutti lo possano vedere.

Impegno e speranza
Due costanti, quello dell’impegno e della speranza, che affiorano prepotenti in tutta la sua vita, tra la gente di Tricase che lo accoglie come parroco, nella Chiesa di Molfetta come Pastore e nel popolo di Pax Christi in anni difficili ma esaltanti della sua storia.
Ripenso alla notte del 16 gennaio 1991, quando alle 2,50 del mattino prende il via la tragedia della guerra del Golfo per la distruzione dell’Iraq, una guerra che sembra non finire mai.
Quella notte don Tonino non chiude occhio. È anche lui incollato al televisore ed è sopraffatto dall’emozione. La sera prima ha presieduto una veglia di preghiera per la pace nella Cappella del Seminario, ora si ritira a pregare nel silenzio della notte. Poi scrive un breve e accorato testo che riesce a inserire, come foglietto volante, listato a lutto, nel numero della rivista “Sole e Luce” che è già in corso di stampa… Le sue ore in quei giorni sono un vortice di iniziative frenetiche: telefonate, contatti, appelli su appelli. Uno di questi è rivolto ai credenti, in sintonia con gli undici appelli di Giovanni Paolo II dall’agosto 1990 al gennaio 1991, un altro ai cittadini della sua terra, definito provocatorio e tacciato di diserzione…” (Ragaini, don Tonino fratello vescovo).
Come quando, due anni dopo, colla Bosnia lacerata dalla guerra etnica, prende corpo la prospettiva di raggiungere Sarajevo assediata con una carovana disarmata di 500 pacifisti. È già minato dal cancro che lo stroncherà dopo quattro mesi. Tutti gli sconsigliano di andare ma dice al parroco di Alessano, suo paese natale: “Devo andarci, anche con la flebo… qui si stanno sperimentando gli eserciti di domani, i soldati della pace; devo esserci anch’io con loro”.
Ma c’era già stata prima l’immediata solidarietà con gli albanesi sbarcati in massa a Brindisi, Otranto e Bari, facendo ricordare il dramma dei beat-people di Vietnam e Cambogia, arrivando fino a Molfetta dove il vescovo li accoglie nel seminario regionale e chiede alla comunità diocesana di aprire le porte delle loro case; l’appassionata difesa della terra di Puglia come “arca di pace” di fronte al pericolo di ridurla ad “arco di guerra” con l’installazione degli F16 e, prima di tutto e sopra tutto, quotidianamente, l’assillo pastorale per la sua Chiesa in cammino verso la comunione, sempre difficile da costruire ma ancora di più quando antiche sedi vescovili si ritrovano a formare un’unica diocesi, con la fatica di procedere insieme.

Una ridente fioritura
Se poi arriviamo alla voce speranza incontriamo una dimensione esistenziale della sua vita.
Tante volte si parla di lui come profeta della pace e della speranza. Ma è proprio questa la caratteristica del profeta, di guardare più avanti, oltre l’orizzonte basso della nostra visuale corta e, attraverso il grigiore dei giorni sempre uguali, scorgere la primavera che viene. Sperare è guardare al nuovo non come qualcosa che in qualche modo verrà, ma come qualcosa che è già in costruzione e sta crescendo, invitandoci in qualche modo a sceglierlo subito.
Ci coglie un nodo di commozione nel rileggere le parole della sua ultima omelia crismale: “Vedrete come fra poco la fioritura della primavera spirituale inonderà il mondo, perché andiamo verso momenti splendidi di storia. Non vedete quanti fiori spuntano sulle piante dei nostri giardini?”.
Tanti giovani e meno giovani, coinvolti nella stessa direzione in quegli anni effervescenti di passione per la pace, non dimenticheranno mai quella parola risuonata all’Arena di Verona: “In piedi, costruttori di pace!”.
Ho preferito tenermi alle sue parole, vive e incisive come quando le ha pronunciate, piuttosto che aggiungere riflessioni di poco conto.
Ma mi sono sempre posto una domanda: da dove scaturiva quell’energia spirituale che ne ha fatto la voce profetica del suo tempo e dove si fonda, dove si radica l’interesse, la memoria, il rispetto e la venerazione che a quindici anni dalla sua dipartita da noi si fa sempre più consistente, ampia e convincente?
Ricordo la prima volta che – chiamato alla presidenza di Pax Christi che non conoscevo se non di nome (e ben lungi dall’immaginare di dover raccogliere da lui il testimone della sfibrante corsa per una cultura di pace) – mi ero recato ad Alessano dove, nello spazio-anfiteatro attorno alla sua tomba, si incontrano sempre persone che sostano in raccoglimento e preghiera. Su un masso posto a delimitare quello spazio c’è una scritta, tracciata con caratteri gravati nel sasso: “Ama la gente, i poveri soprattutto, e Gesù Cristo: tutto il resto non conta”.
Credo che il suo segreto sia tutto qui: una passione per l’uomo, una predilezione per gli ultimi, una struggente amicizia con Gesù Cristo.
L’amore per la gente, la sua gente di Puglia, tutte le persone che ha incontrato nel suo servizio di parroco e di vescovo, con appassionata dedizione, sempre attento ai problemi della vita di ogni giorno: “Se stai chiuso in casa, se non ti lasci scomodare, non capisci. È un peccato che non può essere perdonato”. Ricordo quando lo incontravo alle Assemblee della CEI. Non aveva molta gente intorno, era anzi normalmente piuttosto solo, ma se lo avvicinavi e gli rivolgevi la parola il suo volto s’illuminava e sentivi insieme alla sua voce il suo cuore, e non c’era nulla che lo potesse distrarre, per quante persone anche importanti passassero accanto. Come in quelle splendide omelie del giovedì santo, tenute ora nell’una o nell’altra delle sue antiche cattedrali, ove si respira la dedicazione e la passione per la sua Chiesa su temi e parole semplici come il pane e l’olio, il servizio e la riconciliazione e la pace, tese alla costruzione della comunione, anelito profondo del suo cuore di Pastore.
Ricordo quello che mi diceva un suo concittadino di Molfetta, come nella città e nella diocesi non ci fosse casa che non tenesse in evidenza e ben esposta la sua immagine, volto di fratello e di Pastore.

Pietre di scarto
Quando uscì la nota pastorale della CEI “Ripartire dagli ultimi” lo trovò già molto avanti su questa strada, come appare dai suoi scritti: “Cerchiamoli, inseguiamoli, staniamoli dai loro nascondigli, facciamo un inventario come usiamo con gli oggetti preziosi delle nostre chiese”. Senza timore di assimilare queste “pietre di scarto” che andava a cercare a ora tarda nei quartieri della città, agli ostensori e ai turiboli, oggetti che servono per il culto, con notevole sconcerto delle persone per bene.
Ma prima di tutto e sopra tutto incontriamo il sacerdote e il vescovo innamorato di Cristo: “Dobbiamo abbeverarci alla fontana della comunione, tenendo fissi gli occhi su di lui. Se andiamo cercando solo l’organizzazione lasceremo gelidi i cuori degli uomini”.
Tradotto in termini concreti voleva dire il silenzio e la preghiera prolungata, fatta di abbandono e di stupore, davanti all’Eucarestia.
Chi lo ha conosciuto da vicino racconta del suo scrittoio, tavolo di lavoro, collocato nel vano che immetteva alla cappella dove ogni venerdì incontrava i giovani, invitandoli “a innamorarsi di Gesù Cristo, perché il part-time con lui non regge”. In un testo che ha scritto per far conoscere Pax Christi troviamo una frase illuminante: “La pace è made in cielo e solo dopo averla lungamente invocata e impetrata in ginocchio si possono intraprendere azioni anche rischiose”. E di azioni rischiose ne sapeva qualcosa.
La pagina di don Tonino che abbiamo provato a leggere insieme si chiude con l’affidamento a Maria, regina dei Martiri, Vergine dell’attesa e Madre della speranza. Tante volte la memoria mariana o la preghiera alla Vergine conclude le sue lettere e omelie.
Anche per me la Madonna è stata l’occasione per conoscere il vescovo don Tonino. Mi era capitata tra le mani una rivista o bollettino parrocchiale dove un titolo mi aveva incuriosito: “Maria, donna feriale” e mi aveva sorpreso l’immediatezza del contenuto e la magia delle parole insieme semplici ed elevate. Non sapevo nulla dell’autore, se non il nome e mi ripromisi di incontrarlo nell’Assemblea CEI, che sarebbe seguita poco dopo. Così lo incontrai, solo, come in genere gli capitava di essere, pur in mezzo a un via vai di gente.
Ho potuto così sperimentare che cosa vuol dire l’attenzione alla persona, la “passione per l’uomo” di cui parlavo sopra.
Mi raccontava mons. Bettazzi, che durante gli ultimi giorni della malattia faceva la spola tra Ivrea e Molfetta per stare acconto al suo grande Amico, come nella sofferenza che si faceva sempre più acuta l’ha sentito pregare: “Madonnina, fai presto”. Mi sembra l’eco di quanto la Chiesa, nel Prefazio della Messa della B.V. Maria, dice di Lei “ora risplende sul nostro cammino, segno di consolazione e di sicura speranza”.

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