Dall’assistenza allo stato
Dalla parte dei poveri.
La situazione sociale è oggi molto pesante ed è il frutto di un processo lungo e radicato nel tempo, iniziato alla fine degli anni Ottanta.
In trenta anni i salari e le pensioni hanno perso il corrispondente di dieci punti PIL, che si è spostato a vantaggio di rendite e profitti.
Considero questo come un segno evidente della gravità della situazione attuale: è come se avessimo avuto continuativamente un governo della Thatcher, che in Inghilterra è riuscita in otto anni a spostare 3 punti di PIL a vantaggio dei profitti.
In questi anni, da un lato si sono diffusi precarietà, la¬voro nero ed evasione fiscale, dall’altro si è sostanzialmente dissolto, dal punto di vista qualitativo, l’apparato industriale.
Inoltre, il fatto che si consideri l’economia come se contenesse elementi oggettivi, indiscutibili e non giudicabili da diversi punti di vista, significa che la politica ha abdicato al suo ruolo, si è ridotta a quei compiti che erano propri dello Stato ottocentesco.
Un sistema inadeguato
A tutto questo l’attuale sistema di welfare non solo non sembra adeguato a dare risposte, ma per effetto della riforma costituzionale, improntata al federalismo, è divenuto meno efficace a rispondere alle questioni concrete che si pongono, a cominciare dalla precarietà sempre più diffusa.
Tra le regioni, che gestiscono direttamente le politiche sociali e lo Stato nazionale, che può intervenire solo in seconda battuta attraverso la definizione di livelli essenziali, esiste un notevole sbilanciamento di poteri. Lo Stato non ha effettiva conoscenza non solo della composizione, ma neanche della quantità delle risorse dedicate dalle singole regioni alle politiche sociali.
In questo quadro il tentativo di costruire un ragionamento complessivo sull’efficacia del welfare e sulla sua eventuale riforma si basa più sulla moral suasion che non sulla divisione dei poteri dello Stato, perché questi sono completamente sbilanciati.
A ciò si aggiunge un ulteriore problema generalmente poco considerato: le regioni non devono fare i conti con un “controllo dal basso” proporzionale al potere che è stato loro conferito.
Il livello di governo regionale non risponde direttamente all’opinione pubblica e all’elettorato, mentre il governo centrale è soggetto a verifiche sull’efficacia del suo operato, la regione non è ancora considerata come attore pienamente responsabile delle politiche realizzate.
Questo senza contare che quanto si decide oggi a Milano o a Venezia è spesso altrettanto distante dai territori della Lombardia o del Veneto di quanto si decideva prima a Roma. Si è cioè prodotto una sorta di federalismo-centralista che ha riproposto molti dei problemi precedenti.
Ritengo che l’architettura istituzionale, che è stata costruita con la modifica del Titolo V della Costituzione, sia completamente sbagliata e difficilmente modificabile in un arco temporale ragionevole. Peraltro il federalismo fiscale, anziché correggerla, tenderà a consolidare gli elementi negativi di quella riforma costituzionale. Questa espressa non è la visione di chi non è d’accordo col decentramento e con l’autonomia regionale, ma di chi pensa che un corretto e democratico ordinamento istituzionale deve prevedere un bilanciamento tra i poteri dello Stato e un equilibrio tra l’effettivo potere di ogni istituzione e il grado di controllo reale che su di essa si riesce a esercitare dal basso, da parte dei cittadini.
La rete dei servizi
Un altro aspetto che ha fortemente ostacolato la costruzione di un vero sistema di welfare è stato il modo di regolare il rapporto tra le istituzioni pubbliche e il Terzo Settore. Invece di affidare al Terzo Settore i compiti che gli sono propri, ossia l’aspetto più “fine” dei servizi, la loro personalizzazione, la sperimentazione di servizi nuovi, si tende a delegare ad esso ben altro. Questo processo è stato aggravato dalle scelte del governo di centro-destra, e in particolare dal dimezzamento del Fondo Nazionale per le Politiche Sociali, fatto in parallelo all’introduzione del “5 per mille”. Personalmente difendo il principio che sottende al “5 per mille”, ossia l’idea del finanziamento dell’autorganizzazione e della società civile, ma ritengo che la contestualità con il disimpegno finanziario dello Stato sul fronte delle politiche sociali ne abbia fatto un modo per indebolire la responsabilità pubblica nella gestione dei servizi. E ha obbligato il Terzo Settore, in particolare il volontariato e le diverse forme di associazionismo, a farsi carico della tenuta sociale complessiva, e quindi ad andare oltre il proprio mandato e le proprie forze in cambio di denaro pubblico erogato.
Tutto ciò ha contribuito a determinare una seria destrutturazione dell’embrionale rete di servizi diffusa sul territorio, sia per il ritrarsi dell’attore pubblico sia per le condizioni in cui ha costretto il Terzo Settore.
Non va inoltre sottovalutato che qualsiasi discorso sulla costruzione di piani di zona e sugli altri strumenti di pianificazione dell’intervento sociale diventa vuoto e inutile quando la situazione concreta è quella della precarietà delle figure professionali (pubbliche, private e privato-sociali) che concretamente operano nel sociale.
La spesa sociale
Altro tema in discussione è il riequilibrio della spesa sociale a danno della spesa pensionistica. Ritengo che questo sia un modo per eludere il problema dell’aumento della spesa sociale visto che la spesa pensionistica è incomprimibile, ed è incomprimibile non solo per motivi di consenso politico, ma perché è obiettivamente insufficiente. È, quindi, sbagliato voler ridurre la spesa pensionistica, proponendo la soluzione del riequilibrio tra la spesa pensionistica e il resto della spesa sociale. Inoltre, il fatto di incentrare ogni discussione in materia di spesa sociale sulle pensioni alimenta la paura che le riforme possano peggiorare la vita delle persone. Si tratta piuttosto del fatto che, comprimendo la spesa per le pensioni, si aggrava proporzionalmente il problema dell’inclusione sociale perché si aumenta il numero di poveri, reali o potenziali, e si diminuisce immediatamente il reddito familiare anche a svantaggio di quei “figli” che spesso si dice di voler tutelare dal presunto egoismo dei “padri”.
Se si finanziano le spese sociali col taglio delle pensioni, si avrà un parziale aumento dei fondi a fronte di un aumento della povertà, dei problemi sociali e delle connesse esigenze di spesa. Si tratta di un’operazione iniqua socialmente e inefficace economicamente.
Un altro elemento che non si considera con sufficiente attenzione, quando si affronta il problema del welfare, è la mancanza di potere e di influenza sulla realtà che contraddistingue i poveri. L’osservazione può apparire banale, ma ha effetti importantissimi sulle policies. Quando si fanno dei tagli, ad esempio, alla spesa sanitaria, non è per nulla detto che questi tagli riducano gli sprechi, giacché in questi casi il differenziale di potere conta spesso ben più della razionalità economica. Accade cioè che laddove c’è un potentato in grado di “difendere” una determinata spesa, questa viene confermata anche se è inutile; mentre laddove c’è una spesa sociale utilissima, ma destinata a soggetti “deboli”, quella spesa viene tagliata.
Emergenza casa
In Italia si è creata una vera e propria emergenza, quella della casa. Un’emergenza che colpisce ovviamente gli strati più poveri e quelli già vittima della precarizzazione del mercato del lavoro.
Negli ultimi anni vi è stata da un lato la svendita del patrimonio immobiliare pubblico e dall’altro la completa latitanza di politiche abitative. Si consideri che la media europea di alloggi pubblici si attesta intorno al 16% del patrimonio abitativo e quella italiana è del 4%. Con la fine dell’equo canone si è prodotto un profondo squilibrio tra rendita e disponibilità reale di abitazioni; in mancanza di un intervento pubblico che frenasse il mercato, il valore degli affitti ha seguito la valorizzazione del mercato immobiliare, rendendo incolmabile il divario tra le disponibilità finanziarie delle famiglie e il costo dell’affitto. Questa osservazione è confermata dal dato sugli sfratti, che oggi sono in maniera preponderante motivati dalla morosità degli inquilini.
Ugualmente preoccupante è il fenomeno delle famiglie intestatarie di mutui per l’acquisto della prima casa che si trovano a rischio di insolvenza, quindi di perdita del bene.
La risposta è nel rilancio degli interventi di edilizia sociale, avviato in questi mesi con l’approvazione del Piano straordinario per la casa finanziato con 550 milioni di euro, stabilito dalla Legge 9 del 2007 “per la riduzione del disagio abitativo per particolari categorie sociali”, e con l’avvio di politiche abitative strutturate che comprendano interventi di tipo fiscale e di recupero di aree e di immobili demaniali.
Un altro punto determinante per un welfare capace di rispondere alle esigenze reali della società è quello di avere una legge sui livelli essenziali di assistenza, a partire dalla non-autosufficienza.
È evidente che si tratta di un obiettivo più modesto rispetto a quello di un disegno riformatore complessivo, ma fissare per legge diritti soggettivi, certi ed egualmente esigibili su tutto il territorio nazionale costituirebbe comunque un primo passaggio per una riforma del welfare.
Se l’obiettivo è di avere un welfare degno di un Paese civile non possiamo più pensare alla spesa sociale come a una variabile dipendente della crescita, e quindi come a una spesa eventuale e subordinata a un numero indefinito di fattori.
Occorre cominciare a considerare la spesa sociale come un investimento in quel “capitale umano” che da più parti è considerato il volano fondamentale della crescita nelle cosiddette “economie della conoscenza”, come un modo per alimentare la coesione e la ricostruzione del tessuto sociale, senza le quali il Paese rischia di non esistere più come vera entità civile e quindi economica.