Senza sandali né bisaccia
Non è vero che si nasce poveri. Si può nascere poeti, ma non poveri. Poveri si diventa. Come si diventa avvocati, tecnici, preti. Dopo una trafila di studi, cioè. Dopo lunghe fatiche ed estenuanti esercizi. Questa della povertà, insomma, è una carriera. E per giunta tra le più complesse.
Suppone un noviziato severo. Richiede un tirocinio difficile. Tanto difficile che il Signore Gesù si è voluto riservare direttamente l’insegnamento di questa disciplina.
Nella seconda lettera che San Paolo scrisse ai cittadini di Corinto, al capitolo ottavo, c è un passaggio fortissimo: “Il Signore nostro Gesù Cristo, da ricco che era, si è fatto povero per voi”.
È un testo splendido. Ha la cadenza di un diploma di laurea, conseguito a pieni voti, incorniciato con cura, e gelosamente custodito dal titolare, che se l’è portato con sé in tutte le trasferte come il documento più significativo della sua identità…
Se l’è portato perfino nella trasferta suprema della croce, come la più inequivocabile tessera di riconoscimento della sua persona, se è vera quella intuizione di Dante che, parlando della povertà del Maestro, afferma: “Ella con Cristo salse sulla croce”.
Non c’è che dire: il Signore Gesù ha fatto una brillante carriera. E ce l’ha voluta insegnare.
Perché la povertà si insegna e si apprende. Alla povertà ci si educa e ci si allena.
Poveri: si nasce o si diventa?
È una domanda tagliente. Tipica di don Tonino Bello, il cui stile da commentare mi onora. Perché mi sembra, nel parlarne a voi, carissimi amici e amiche, di risentirne la voce, il suo tono rapido e immediato, la scioltezza del linguaggio, l’uso propositivo del discorrere tale da restare a lungo impresso nel cuore.
Ma soprattutto, nel parlare di povertà, don Tonino non era un teorico, ma un testimone. Non uno che ha studiato la cosa, ma un prete e un vescovo, del Sud, che la povertà l’aveva incontrata già nella sua infanzia e adolescenza, maturata poi con scelte chiare lungo gli anni del Concilio, fatta scelta condivisa dentro un percorso di giovane prete che si snocciolava tra le case dei poveri, le masserie agricole della gente di Puglia, i ragazzi del seminario. E poi, da vescovo, gli anfratti di casa nel centro storico di Molfetta da lui spesso visitati, i disoccupati e i derelitti che nessuno voleva, da lui accolti con gioia evidente, nel segno eroico di ospitare in casa sua, in episcopio, con coraggio ma anche tra molte critiche, un grappolo di sfrattati. Con tutti i fastidi conseguenti, in termini di orario e di faticoso clima di silenzio, come io stesso ebbi occasione di constatare personalmente.
Questo era don Tonino.
E questi sono i suoi scritti.
La povertà come cifra di Vangelo. Come tesoro, da custodire, come diploma incorniciato. Immagine da lui stesso usata a commento di un testo lucidissimo di san Paolo: “Il Signore nostro Gesù Cristo, da ricco che era, si è fatto povero per voi”(l Cor 8). Don Tonino così lo attualizzava, con le sue consuete immagini efficaci: “È un testo splendido. Ha la cadenza di un diploma di laurea, conseguito a pieni voti, incorniciato con cura e gelosamente custodito in tutte le trasferte... perfino nella trasferta suprema della croce, come la tessera più inequivocabile di riconoscimento della sua persona...!”.
Un ricordo personale rende testimonianza a questo commento. Un vissuto, che mi è rimasto impresso nel cuore, ieri di prete e oggi di vescovo.
Visitai l’episcopio di Molfetta nel maggio del 1987, venendo da Crotone. Ero stato invitato dall’Azione Cattolica, Movimento Lavoratori, per un dibattito pubblico, essendo io, come giovane prete, l’assistente ecclesiastico del MLAC di Calabria. Uno scambio atteso di esperienze, una reciproca passione di vicinanza al mondo del lavoro, tramite militanti immersi nella storia.
Il viaggio in treno da Crotone a Molfetta fu agevole ma lungo. Quasi nulla avevo mangiato a pranzo.
Ebbene, dopo l’incontro serale nei locali a pian terreno dell’episcopio, andammo sopra, nell’appartamento del vescovo. La tavola era ben preparata, senza sfarzo ma con grazia. Considerato il luogo, una cenetta deliziosa me l’aspettavo, visto anche l’appetito maturato. Ma don Tonino, inaspettatamente, non prese quasi nulla. Solo un’arancia e un bicchiere di latte con un pezzetto di pane.
Restammo di sasso. La fame ci passò e anche noi, dietro quell’esempio, mangiammo pochissimo. Ma non è finita qui. Perché lungo la serata, ormai tardi per l’interessante conversazione scambiata, suonò al campanello un poveraccio, uno di quegli accattoni che spesso facevano capolino alla porta del vescovo. E don Tonino lo accolse con una gioia inaspettata: “Vieni, vieni, Giuseppe, sali, perché di roba ne è avanzata molta, vieni su subito...!”.
Restammo allibiti. E poi capii che quel Giuseppe era già destinatario di una lettera, commovente, che il vescovo gli aveva rivolto sul quindicinale della diocesi, proprio per spiegare il mistero della Trinità, dentro una collana di articoli che ritengo siano tra i più belli del suo immenso repertorio.
Una di queste lettere, ormai famose, me la lesse lui stesso, a capo del letto, nella stanza ben preparata. Proprio quella a Giuseppe, perché ne avevamo visto la presenza e perché era vicina la festa della Trinità. Mai avevo visto un vescovo che mi preparava il letto e che, quasi nel rimboccarmi le coperte, mi leggeva un suo testo che divenne per me provocazione santa e rivitalizzante.
Come in chiesa, così in casa
Ancora oggi, nel sentire bussare un povero alla mia porta di vescovo, uno zingaro, un extracomunitario, talvolta istintivamente sento una stizza di disagio. Sono sempre tanti, troppi, molto provati dalla vita, spesso anche poco grati. Ma poi ripenso a lui, a quel vescovo, a quella frase lanciata in una serata, in un orario veramente poco opportuno. Quel povero era il Cristo, che bussava alla porta. Mia e tua, oggi. E fu accolto. Anzi, invitato alla tavola del vescovo. Vescovo e povero alla stessa mensa. Come in chiesa, così in casa.
E oggi, nel commentare quello stile di povertà, sento che devo rincorrere il cammino della Bibbia, partendo proprio dall’Antico Testamento.
Senza quello sguardo, la beatitudine “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”, non la potrei mai comprendere.
Per l’antico Israele, la ricchezza si faceva benedizione e i beni erano sigillo di grazia celeste, come spesso emerge nei Salmi e nei testi sapienziali.
Prima di tutto, il dono della stessa terra è da vedere in quest’ottica di beatitudine vera. La terra per il popolo d’Israele era benedizione, grazia, sigillo. È data per essere amata, lavorata e custodita.
E la parola “giardino” la esprime in modo sublime. Tante volte quest’immagine ha attraversato il mio cammino di vescovo. Oggi in Molise, su colline che si fanno tenerezza, sempre invitanti, mai stanche di parlare di verde, con il grano che vi biondeggia, tra gente serena, in una regione chiamata con fierezza dai suoi abitanti, “regione vivibile”.
E ieri, in Calabria, nella Locride, segata da contrastanti colori: una natura affascinante, bellissima, nel suo mare e nei suoi boschi. Colori, sapori e odori, intrecciati.
Che sanno e fanno parlare d’amore.
Ma anche il triste aspetto dei boschi incendiati, il crepitio degli ulivi feriti dal fuoco, le cose trascurate, l’assistenzialismo dilagante.
Mille gesti di rabbia dentro mille segni di amore.
Ecco perché la parola giardino si lega con la parola povertà. Perché la povertà è cura, bellezza, grazia, benedizione.
Non per vanteria fragile, ma per servizio eloquente.
Non per possedere in modo egoistico, ma per curare in stile di condivisione. Allora quella terra, come ama dire il profeta Isaia (62,1-5) non sarà più detta devastata né abbandonata, ma quella terra, ogni terra, la tua e la nostra, avrà uno sposo!”.
Essere sposi di una terra è possibile, però, solo in clima di povertà e di sobrietà.
Altrimenti, nel tuo cuore nasce quella cupidigia che sta alla base degli incendi devastanti o dell’inquinamento crescente.
È nel cuore che si coltiva il giardino.
Ed è da quel cuore che poi si diffonde e si fa profumo di crisma consacrante, su ali di bellezza incontaminata. Più il cuore è povero e sobrio, più il giardino si fa bello. Più il cuore vive di essenzialità, più cresce la custodia immacolata della terra.
La sofferenza del giusto
L’antico Testamento narra.
Narra di Giobbe, Tobia e Rut.
Giobbe è ricco, sta bene, ha tutto: moglie ammirata, tanti figli bravi, una infinità di beni materiali, come corona e premio del suo vivere rettamente.
Ma un giorno, il diavoletto invidioso di tanta gioia, si insinua davanti al trono di Dio e chiede al Signore di mettere alla prova il santo Giobbe. Privalo dei suoi beni e vedrai...!
Ma Giobbe, pur perdendo tutto, pur privato di tutto e provato in tutto, si mantiene fedele.
Ecco allora un’altra povertà, ancora più dolorosa: “Togligli la salute e vedrai come ti benedirà in faccia...!”.
E Giobbe finisce su un letamaio, perché puzza in modo orribile. Nessuno più lo vuole. Anche la moglie lo detesta e gli scarica davanti i suoi giorni onesti e fedeli: A nulla sono serviti, a niente giova vivere onestamente...
Nasce un dialogo serrato con i teologi e filosofi di allora. Tre saggi che cercano di capire perché il giusto soffre. Mille ipotesi, ragionamenti sottili, elucubrazioni ardite. Ma nulla esce di risposta vera.
E allora, sarà lo stesso Giobbe a indicarci la strada della vita. Ammirato della perfezione divina, che appare nella bellezza del creato, sarà lo stupore a restituirgli il dono della fede: “Ora so che tutto puoi, che niente ti è impossibile”. Se Dio è così perfetto, anche la malattia e la povertà, pur così illogiche, avranno una ragione: “Dio ha dato, Dio ha tolto; sia fatta sempre la sua volontà!” .
E Dio, vedendolo così retto e chiaro, così forte nella prova, tutto gli restituisce. Centuplicato. Privato dei beni, perciò provato. Ma poi ricompensato in grazia e rinnovata benedizione.
Questo è l’agire di Dio.
Anche in don Tonino lo stupore è fonte e frutto di sobrietà di vita. Perché usa l’arte dello stupore che è la poesia. Il vertice di esso. E con la poesia, il vescovo incanta, apre il cuore alla sua gente, ne allarga gli orizzonti.
Ma solo un cuore semplice e povero può generare la poesia. Perché sgorga dalla verità e dal dolore condiviso della vita.
Per condividere
Lo fa anche con Tobia e Sara. Due figure che tanto hanno sofferto, per l’ingratitudine degli uomini e donne che li circondano. Ma soprattutto perché, pur avendo vissuto con eroismo, sono privati dei loro beni e perciò acutamente provati.
La loro vicenda è una lezione di vita incantevole. Perché Dio sempre accompagna, apre strade nuove, mette vicino ai nostri passi la persona giusta al momento giusto. Perché Dio non dimentica il bene, fatto di nascosto. La gente ignora e disprezza. Ma Dio annota e premia. Ed ecco la ricompensa. Che non vale per i beni riavuti, ma per la gioia che sempre Dio rimette nel cuore dei suoi fedeli. Perché – per dirla con il Manzoni che tanto aveva sofferto – Dio non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più grande e una più certa...!”.
E nel libro di Tobia, viene indicato un segno forte di condivisione: l’elemosina. Non per liberarsi dagli accattoni, ma per creare nelle nostre famiglie uno stile di comunione di quanto gratuitamente Dio ti ha donato: Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente donate!”.
So che questo era lo stile di don Tonino. Una vicinanza che lo rendeva realmente povero, dalle tasche sempre vuote, per poter soccorrere i poveri e le vedove, con gesti esigenti, senza mai rimandare a domani chi bussava alla sua porta.
All’ombra della gratuità
Rut e Noemi sono due donne provate. Nei loro affetti e nei loro beni. Erano partite piene da Betlemme, ma lungo la vita Dio le ha rese vuote. Anche per loro, nella fiducia di segni chiari, tramite la gratuità dell’amore, si intessono speranze nuove. E Noemi, svuotata dalla vita, ormai anziana, culla il suo bel nipotino, tra l’ammirazione della gente di Betlemme: “È nato un figlio a Noemi!”.
La gratuità è la cifra che regge la povertà. È lo stile che si fa poi gratitudine con relazioni serene, fraterne, amabili, con quel sorriso che si legge sempre sulle foto di don Tonino. Accattivante e invitante, specie in un mondo di infelicità quale quello che oggi ci stiamo co¬struendo, forse proprio perché troppo sui beni materiali stiamo puntando.
Tre esempi, per inquadrare dentro un orizzonte più ampio, biblicamente fondato, lo stile di don Tonino.
Che ovviamente va poi confrontato con lo stile di Gesù. Perchè è Gesù che il vescovo aveva sempre sulle labbra, come specchio di perfezione e vertice di stile di povertà.
Quel Gesù che sceglie la povertà e non la subisce. La sceglie in tutto il suo modo di essere e di vivere. Già nel suo nascere, in una stalla, perché non c’era posto per loro in una casa. Rifiutato. Ieri come oggi. Nei poveri che dormono alla stazione e che restano la verifica della nostra fede.
E a Nazareth, quel suo silenzio, intessuto di umiltà e obbedienza. Una povertà che ti rende uguale in tutto agli altri. Senza privilegi o differenze. Nella scelta del treno, della gente con cui vivere, nella sobrietà del quotidiano.
Ieri e oggi la Chiesa ha in Nazareth la sua misura. Quella casa che è la casa della semplicità e della gioia, del lavoro e del sudore.
Tutte immagini che ritroviamo in pieno nel suo ultimo capolavoro per il mese di maggio, su Maria. Riflette tutto quanto abbiamo ora raccolto: lo stupore della poesia, la gratuità, la certezza della benedizione di Dio nel Magnificat, la gioia condivisa, l’accoglienza nella povertà, la sobrietà come speranza per l’intero creato, il sorriso sul volto, la fatica del quotidiano, il dolore ai piedi della Croce, che, se pur in collocazione provvisoria, resta sempre la misura dell’Amore.
Non aveva dove posare il capo, Gesù.
Per questo, è nel cuore di tutti e nelle case di ciascuno di noi.
Per sempre, vicino a Dio e perciò vicino ai poveri.