La Scuola delle Americhe
In una piccola città della Georgia, negli Stati Uniti, c’è una grande città militare, “Fort Benning”, dove dal 1983, quando fu sfrattata da Panama, c’è la “School of America” (SOA), un dipartimento speciale per l’addestramento dei militari scelti inviati lì dai governi latinoamericani. È stata chiamata pure la “scuola degli assassini” perché sono “educati” alcuni noti responsabili di torture e assassini. Un missionario della congregazione di Maryknoll si è piazzato lì davanti e da venti anni manifesta per la chiusura della SOA.
Più volte vengono compiuti gesti di disobbedienza civile. P. Roy, a varie riprese, è stato in carcere per quattro anni. L’ho incontrato nell’agosto scorso nel minuscolo appartamento di fronte all’ingresso di Fort Benning e mi sono fatto raccontare la sua “storia”.
Storia di un missionario
Sono nato nel 1945 in una piccola città della Luisiana. La mia famiglia era molto cattolica, in modo tradizionale. Non si parlava di politica e tanto meno di pace. In chiesa non sentivo mai parlare di razzismo. I negri stavano tranquilli negli ultimi banchi. Anche a scuola eravamo divisi bianchi dai neri. Per noi essere cattolici significava servire la patria e combattere il comunismo. Per questo mi arruolai nella marina. Divenni ufficiale e girai il mondo. Quando richiesero volontari per andare in Vietnam mi offrii.
Credevo che fosse una causa nobile perché andavamo lì per difendere la libertà. Il Vietnam fu, invece, il punto di svolta della mia vita. C’era tanta povertà. Tante persone venivano uccise. Non ho mai visto un inferno come quello. Quando la mia baracca fu bombardata morirono quaranta soldati e anch’io fui ferito. Entrai profondamente in crisi. La guerra aveva ucciso in me la speranza e aveva distrutto la fede. Poi conobbi un missionario francese pacifista, che era da molti anni in Vietnam. Aveva costruito un orfanatrofio. Quei trecento bambini, i cui genitori erano stati uccisi dalle “nostre” armi, mi toccarono il cuore. Con altri amici li aiutavo; facevo collette e portavo cibo. Discussi molto col missionario. Alle fine decisi che avrei fatto anch’io il missionario. A Hong Kong conobbi la congregazione dei missionari di Maryknoll. Tra la sorpresa di tutti entrai fra di loro e nel 1972 fui ordinato prete. Mi mandarono in Bolivia. Ci restai per cinque anni. Dopo lo studio della lingua a Cochabamba andai a vivere in un quartiere popolare alla periferia di La Paz. In quella stanza per cinque anni i poveri e gli oppressi divennero i miei maestri.
La dittatura
A quel tempo la Bolivia era guidata da un duro dittatore militare, il generale Ugo Banzer Panzer, arrivato al potere con un colpo di stato militare.
Mi vergognavo nello scoprire sempre di più come il mio governo sostenesse quel crudele dittatore e come fosse lo stesso in Cile, in Perù e nel Centro America. Questi governi militari garantivano e proteggevano gli interessi dei nuovi “conquistadores” a scapito dei poveri del paese. Mi impegnai molto nei movimenti popolari, di base, per affrontare i problemi della fame, delle malattie, della mancanza di tutto. Erano pure i luoghi nei quali si leggeva il Vangelo e si celebrava l’Eucarestia. C’erano dei validi sacerdoti. Ricordo un grande gesuita, padre Luis Espinal, e anche un vescovo, mons. Armando Manriqui, che ci sosteneva.
Il governo sentiva, però, questi movimenti come una minaccia e rispondeva con la repressione. Le carceri erano piene di studenti, di operai, di contadini, di minatori. Come cittadino americano ero un privilegiato. Il vescovo mi procurò un permesso per visitare le carceri. Insieme a un gruppo ecumenico lavorammo a un’accurata documentazione sulle torture e la violazione dei diritti umani. Nel 1977 in un viaggio a Washington portai tutta la documentazione sulle torture in Bolivia a una commissione del Congresso degli Stati Uniti. Tornato in Bolivia. fui arrestato ed espulso dal paese. Ne fui molto rattristato, ma non persi la speranza di tornare. Era, infatti, il tempo nel quale la teologia della liberazione stava dando ai poveri una nuova speranza. Mi rattristava, però, il silenzio e l’acquiescenza di tanta parte della gerarchia cattolica. Ancora di più mi scandalizzavano le critiche del Vaticano ai teologi della liberazione.
Negli Stati Uniti
I superiori della congregazione mi mandarono a Chicago e capii che c’era molto da fare anche negli Stati Uniti. Qui la gente conosce pochissimo la politica estera del nostro paese e ancora meno conosce la storia e la cultura degli altri paesi, in primis dell’America Latina. Mi dedicai, quindi, all’educazione e all’informazione. Nel 1980 andai in El Salvador, che in quel momento era al centro dell’attenzione pubblica perché il 24 marzo 1980 vi era stato ucciso l’arcivescovo Oscar Romero e pochi mesi dopo quattro donne statunitensi sue collaboratrici.
Tornato in patria non potevo tacere. Volevo farmi eco della voce di mons. Romero, avvocato dei poveri. Dovunque potevo parlavo di lui, specialmente con i salvadoregni.
Nel 1983 lessi sul New York Times che a Fort Benning erano arrivati 525 soldati salvadoregni per essere addestrati a combattere la guerriglia. Mi sentii come ispirato. Cancellai tutti gli impegni. Sentivo che lo Spirito mi chiamava lì. Contattai un altro amico sacerdote, padre Larry Rosenbaun, un oblato di Maria Immacolata, noto pacifista. Convocai i miei amici del Catholic Worker di Chicago. Affittai un appartamento che chiamai “Casa Romero”.
Pochi giorni prima avevamo ricevuto la registrazione dell’ultima omelia di mons. Romero, pronunciata nella cattedrale il giorno prima di essere assassinato. Si era rivolto ai soldati ordinando loro di disobbedire agli ordini di morte dei loro superiori e di obbedire alla legge superiore di Dio di non uccidere. Decidemmo di far sentire queste parole di mons. Romero anche ai militari salvadoregni dentro Fort Benning. Ci organizzammo accuratamente.
Il carcere
Eravamo in tre: Linda Ventimiglia, un’amica pacifista, padre Larry e io, vestiti con divise di ufficiali dell’esercito, nella notte superammo tutti i posti di blocco. Salimmo sugli alberi di fronte alle caserme della SOA, mettemmo dei grandi altoparlanti e lanciammo a tutto volume: “Aqui tenemos la voz de monsenhor Romero”. I soldati salvadoregni sapevano bene chi era mons. Romero. Furibondi uscirono dalle baracche con i fucili spianati. Ci arrestarono e ci portarono dagli ufficiali superiori americani. Non avevamo documenti. Sulle uniformi avevamo scritto in modo militare, io il nome di Romero, Larry il nome di Rutilio Grande e Linda Ventimiglia quello di Jean Donovan. Ci portarono in prigione e vi restammo fino al processo. Dinanzi al giudice mettemmo sotto accusa la politica estera degli Stati Uniti e dei governi assassini che essi sostenevano.
Ci condannarono a un anno e mezzo di prigione. Mi portarono in un carcere del Minnesota. Devo dire, però, che ho imparato che possono chiuderci in prigione, ma non posso farci tacere. Dalla prigione ho scritto centinaia di lettere. Gli amici mi mandavano liste di giornali, associazioni e persone e a tutti scrissi lettere di denuncia delle violenze nel Salvador. I giornali erano sorpresi di ricevere delle lettere da un prete cattolico carcerato per aver denunciato le violenze del Salvador. I superiori mi assegnarono alla casa di Minneanapolis in Minnesota. Quando nel 1989 furono assassinati i sei gesuiti e le due loro collaboratrici familiari, ci fu nel paese un’immensa reazione, anche a Washington.
Alcuni amici salvadoregni mi telefonarono e mi dissero: facciamo come in Salvador con mons. Romero, andiamo nella cattedrale e digiuniamo invitando le persone a unirsi a noi nella richiesta al governo Usa di sospendere gli aiuti militari al Salvador. Fu un’iniziativa meravigliosa. Occupammo la cattedrale di Minneanapolis. Era la prima volta che si occupava una cattedrale cattolica. Eravamo nove salvadoregni e io, ma si unirono ben presto persone di tutte le chiese per sostenerci. E solidarizzare con noi. Alle tre del pomeriggio del primo giorno venne l’arcivescovo card. Roch. Era arrabbiatissimo: “Si rivolse solo a me: ‘Padre, cosa sta facendo qui?’”. Gli dissi che ero stato invitato dai salvadoregni a pregare e a digiunare con loro e lui affermò: “Questa è la mia cattedrale!”. Risposi: “Questa cattedrale non è sua personale, è del popolo che l’ha costruita con milioni di dollari offerti nelle parrocchie. Se lei vuole parlare lo faccia con tutti noi”. Se ne andò. E noi rimanemmo lì per 19 giorni, digiunando, dormendo lì.
Meno male che la gente ci aveva portato delle coperte perché il vescovo aveva fatto chiudere il riscaldamento. Durante tutto il periodo vennero nella cattedrale centinaia di persone. Ricevemmo telefonate da membri del Congresso che ci dissero che era in preparazione una missione speciale in Salvador. Venne anche il governatore che promise che non solo avrebbe scritto al Presidente di sospendere gli aiuti militari ma avrebbe scritto anche agli altri governatori di fare altrettanto. Dopo 19 giorni facemmo una festa, prima di andarcene a casa. Vennero i leaders nativi-americani e fecero le loro cerimonie. Anche il card. Roch venne tra noi.
Sentinella della pace
Un mese dopo una delegazione del congresso andò in Salvador e investigò accuratamente i fatti denunciati. Quando tornarono dichiararono che coloro che avevano ucciso i sei gesuiti e le due collaboratrici erano stati addestrati a Fort Bennings. Quando lessi sui giornali quella notizia ne fui indignato. Telefonai ai miei superiori e dissi: “Voglio il vostro permesso e la vostra benedizione per andare in Georgia di fronte a Fort Bennings”. Mi diedero il loro pieno appoggio e i mezzi per realizzare il mio progetto di “sentinella della pace”. Non conoscevo nessuno, ma mi misi in cerca di informazioni e di collaboratori. Venni così a sapere che soldati provenienti da diciannove paesi latino americani erano lì, nella SOA per essere addestrati. Rividi nelle mani di soldati salvadoregni e guatemaltechi le vecchie armi che avevo usato in Vietnam. Li vidi addestrarsi a uccidere sparando sulle sagome umane. Mi ricordavano le stragi del Vietnam. Sentii che dovevo fermarmi lì per fermare questi preparativi di guerra. Trovai in affitto un minuscolo appartamento proprio di fronte all’ingresso di Fort Benning. Dalla mia finestra a cento metri vedo la grande scritta “Welcome at Fort Benning”. Lì dentro c’è la “School of America” e allora io sarò una sentinella o meglio un osservatore e per questo ho chiamato la mia casa “School of America Watch”.
Da qui ho cominciato a chiamare i gesuiti, i domenicani, gli altri confratelli di Maryknoll, i pacifisti, ecc.. La prima domenica del settembre 1990 vennero dieci persone: due gesuiti, tre domenicani, 3 salvadoregni, un’amica da Chicago. Ci riunimmo per tre giorni di preghiera e decidemmo di iniziare con un digiuno rigoroso. Ci stendemmo davanti all’ingresso di Fort Benning. I soldati passavano accanto e ci deridevano. Digiunammo per 35 giorni. Alla fine decidemmo di dare un appuntamento per il mese di novembre successivo, nell’anniversario dell’uccisione dei gesuiti salvadoregni.
A novembre vennero cento persone. Facemmo una manifestazione davanti a Fort Benning. Mettemmo le fotografie dei gesuiti uccisi e cospargemmo di sangue l’ingresso. Consegnammo una lettera per il comandante in cui dicevamo “Fermate l’addestramento, fermate le uccisioni”. Tre di noi furono arrestati. Io rimasi in prigione per più di un anno, perché era la seconda volta, gli altri di meno. Un’amica volontaria, esperta di diritto, si stabilì qui e continuò il lavoro di documentazione sulla SOA, arrivando a dimostrare che più di 50.000 soldati latinoamericani erano stati addestrati nella sede di Panama e poi, dal 1983, nella nuova sede di Fort Benning.
Tra questi il generale Ugo Banzer, dittatore di Bolovia, Galtieri di Argentina, Noriega di Panama, Roberto D’Abouisson del Salvador. Molti vengono dalla Colombia. Vengono addestrati nelle tecniche della “counterinsurgency” e l’“insurgency”: la sovversione è portata avanti sempre dai poveri, i loro leaders spirituali, le comunità di base. La missione, in fin dei conti, è sempre proteggere l’economia americana.
Uscito dalla prigione della Florida, andai in giro a far conferenze in tutto il paese, dando a tutti l’appuntamento per il novembre successivo per chiedere la chiusura di quella scuola di assassini. Nel 1991 vennero 500 persone, l’anno seguente 1000, poi tremila, infine nello scorso novembre erano ventimila. Una grande crescita di presenze è dovuta all’impegno dei gesuiti che dalle loro 26 università e scuole superiori organizzano una folta presenza di studenti. Vengono, però, anche molti ex-militari che hanno un forte movimento di “Veterans for peace”.
Da questo forte partono infatti migliaia di soldati per l’Iraq. L’immagine che diffondemmo era quella di un grande cimitero con migliaia di croci con i nomi dei soldati americani uccisi in Iraq e lo slogan “Stop the war”. Sono celebrazioni commoventi piene di speranza e di “com-passione”. Vengono moltissime suore. È venuto pure il vescovo cattolico Thomas Gumbleton, già presidente di Pax Christi USA.
Le proteste e gli arresti
Ogni anno, all’inizio di novembre diamo appuntamento per un sabato e una domenica per discutere di Iraq, di America Latina, di politica estera, di discriminazione, sessismo, di armi nucleari, di nativi americani, ecc.. La domenica poi abbiamo la nostra grande processione. Ogni persona porta in mano una croce bianca con il nome di una vittima, l’età e il paese. Quanti sono i bambini! I nomi poi vengono cantati uno alla volta e tutti proseguono cantando “presente!”.
È commovente; molti piangono. Cantando andiamo insieme verso l’ingresso di Fort Benning dove la polizia ha dipinto una striscia da non oltrepassare. Noi leghiamo le croci alle reti metalliche aldilà delle quali viene insegnata la violenza assassina. Ci vogliono tre ore perché arrivino tutte le persone. Su un grande palco si succedono canti, discorsi e proiezione di documentari. Dopo la processione molti oltrepassano la linea proibita e vengono arrestati. Di solito sono rilasciati il giorno successivo. Dovranno tornare a metà gennaio per il processo. Sanno che saranno condannati a sei mesi di prigione e forse a una multa di migliaia di dollari. Finora sono andate in prigione più di duecentoncinquanta persone. Tra questi molti studenti e professori, molti pensionati, alcuni sacerdoti. Anche molte suore. L’anno scorso ad esempio fu arrestata anche una suora francescana, Suor Dorothy Annecy di 88 anni. Al processo il giudice, in ragione della sua età, voleva darle la condizionale, ma lei disse: “Io farò quello che fanno gli altri” ed è andata in prigione per sei mesi.
Attualmente il movimento sta crescendo.
Siamo andati a Washington per digiunare chiedendo la chiusura della “scuola degli Assassini”. Molti deputati e senatori ci hanno accolto. Nel 2001 la pubblicità contro la SOA era così grande che il Pentagono decise di chiuderla o di cambiarle nome.
Ora ci rechiamo dai governanti latinoamericani chiedendo loro di non mandare più soldati alla SOA. Due anni fa ci siamo incontrati con il presidente Chavez. Ci ha accolto e ascoltato e ha promesso di parlarne con i suoi ministri. Dopo tre settimane il Venezuela ha ritirato le sue truppe. Erano quattromila! Poi siamo andati in Argentina, in Uruguay e tutti ci hanno promesso di ritirare le truppe. Il viaggio in Bolivia è stato il più emozionante. Incontravo Evo Morales, il presidente indigeno e alcuni ministri di quelli che anni prima erano stati con me in prigione. Evo Morales ci ricevette alle cinque del mattino e ci promise che avrebbe studiato il problema. Poi ha annunciato che avrebbe ritirato i soldati dalla SOA. Lo stesso in Argentina con il presidente Kircnher, in Costa Rica col presidente Arias, che però non manda soldati ma poliziotti perché non hanno esercito. Positivo anche l’incontro con il presidente Corea dell’Ecuador. Non abbiamo avuto successo in Cile e soprattutto in Colombia. Quest’ultimo paese (con il Salvador) riceve troppi soldi dagli Stati Uniti per prendere qualche decisione sgradita all’esercito e agli interessi americani.
La chiusura della SOA non è un obiettivo decisivo e finale. È solo una tappa altamente significativa di quella lotta per cambiare la politica imperiale degli Stati Uniti. Sono soprattutto gli studenti e alcune espressioni di base delle chiese che hanno capito che Oscar Romero e i martiri del Salvador sono temi che riguardano tutti e sanno ormai collegarli con la lotta contro la guerra in Iraq, contro il razzismo e gli altri impegni per costruire in modo nonviolento la giustizia e la pace nel resto del mondo.