ULTIMA TESSERA

Tempo di Palestina

Kairos. Liberazione. A partire dalla Terrasanta e dai palestinesi. Sintesi e voci dalla Giornata Onu per i diritti del popolo palestinese, celebrata in Italia a Fiesole.
Giulia Ceccutti

Kairós Palestina. Ossia: tempo di Palestina. È questo, è oggi, il tempo per una pace giusta e per una riconciliazione tra il popolo israeliano e quello palestinese. Kairós Palestina è il titolo e il messaggio del documento diffuso un anno fa a Betlemme da un gruppo di teologi e vescovi palestinesi di diverse confessioni cristiane – primo firmatario il patriarca emerito Michel Sabbah –, e da pochi mesi pubblicato da Pax Christi in un libro presso le edizioni Messaggero di Padova ed edizioni Terra Santa (Kairós Palestina: un momento di verità. Una parola di fede, speranza e amore dal cuore delle sofferenze dei palestinesi).
Il documento fa appello perché termini l’occupazione israeliana nei Territori, sostiene la Campagna internazionale di boicottaggio, ritiro degli investimenti e sanzioni economiche nei confronti di Israele, e chiede ai politici palestinesi la fine della separazione tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. È, soprattutto, “un messaggio d’amore che chiede una resistenza basata sull’amore dell’altro”, nella convinzione che una resistenza nonviolenta sia “dovere e obbligo del cristiano”.
Il testo (che richiama l’omonimo documento Kairós, sottoscritto nel 1985 da un gruppo di cristiani sudafricani impegnati contro l’apartheid e nel quale il regime segregazionista contro la popolazione nera era dichiarato un peccato) è stato al centro, il 27 e 28 novembre scorsi, del lancio della Campagna Ponti e non muri 2011 di Pax Christi. La Campagna è stata presentata a Fiesole, presso la Badia Fiesolana, e a Firenze, in coincidenza con la Giornata Onu per i diritti del popolo palestinese.
Fede e speranza
Intorno alle tre parole chiave del documento – “fede”, “speranza” e “amore” – si sono articolati i contenuti e le diverse testimonianze delle due giornate.
La fede, attraverso le parole di Iyad Twal e di Aktham Saba Hijazin, due sacerdoti della Chiesa di Gerusalemme che hanno raccontato elaborazione, contenuti ed evoluzione del documento Kairós, e nella voce di suor Donatella del Caritas baby hospital di Betlemme, raggiunta su skype, mentre passavano immagini di Gaza oggi: cumuli di macerie in attesa di una ricostruzione che, a due anni dall’operazione “Piombo fuso”, ancora non arriva. Per Donatella, da poco tornata da Gaza, “se come donna oggi è quasi impossibile sperare, come cristiana invece la speranza quasi si impone”.
La speranza, nei volti di Kifah Addera e del marito Nasser, portavoci della resistenza nonviolenta scelta e operata dal villaggio di At-Tuwani, in Cisgiordania, nelle colline a sud di Hebron.
Nel villaggio, posto in un’area (chiamata anche Masafer Yatta) occupata da insediamenti illegali abitati da coloni estremisti nazional-religiosi che rendono particolarmente difficile la vita quotidiana dei pastori e agricoltori palestinesi, Kifah è la promotrice di una cooperativa di donne che, tramite la vendita di ricami e tappeti, fornisce autonomia economica alle donne del villaggio e finanzia gli studi ad alcune di esse. Un laboratorio prezioso di lavoro per l’uguaglianza tra i generi.
La speranza, ancora, nella testimonianza di Daoud Nassar e della Tent of nations (Tenda delle nazioni) da lui fondata a Betlemme: un centro educativo e culturale che coltiva le terre abbandonate e a rischio di confisca da parte israeliana e accoglie attivisti per la pace palestinesi, israeliani e internazionali. La Tenda di Daoud è uno spazio aperto per il dialogo, il cui slogan dice tutto: “Ci rifiutiamo di essere nemici”.
Infine, l’amore, che, nelle parole di Kairós, è “vedere il volto di Dio in ogni essere umano. Ogni persona è mio fratello o mia sorella. Tuttavia, vedendo il volto di Dio in ognuno non significa accettare il male o l’aggressione da parte sua. Piuttosto, questo amore cerca di correggere il male e di fermare l’aggressione”.
E dall’amore la resistenza. Una resistenza creativa: “Affermiamo che la nostra scelta come cristiani di fronte all’occupazione israeliana è di resistere. […] È una resistenza che ha l’amore come logica. È, quindi, una resistenza creativa poiché deve trovare strade umane che impegnino l’umanità del nemico. Vedere il volto di Dio nel volto dello stesso nemico e prendere le posizione alla luce di questa visione è la via efficace per fermare l’ingiustizia”.
Resistere al male attraverso il rispetto della vita, si declina, nel testo, in un invito alla disobbedienza civile: “vediamo che quello che fanno le organizzazioni civili palestinesi, come le organizzazioni internazionali, le ONG e alcune istituzioni religiose, che appellano affinché gli individui, le aziende e gli Stati si impegnino nel disinvestimento e nel boicottaggio di tutto ciò che viene prodotto dall’occupazione integri la logica della resistenza pacifica. Queste Campagne devono essere portate avanti con coraggio, proclamando che il loro scopo non è la vendetta ma la fine del male esistente, la liberazione sia degli oppressori che delle vittime dell’ingiustizia”.
All’interno delle Campagne di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) in corso in diversi Paesi, Pax Christi aderisce alla campagna Stop Agrexco, che ha come obiettivo l’opposizione alla vendita dei prodotti Carmel-Agrexco e all’utilizzo dei porti italiani come attracco della navi Carmel in Europa. Carmel Agrexco, per metà di proprietà dello Stato israeliano, commercializza il 70% di tutta la frutta e la verdura prodotta dalle colonie israeliane illegali nei Territori Occupati e, in Italia, accede al porto di Vado Ligure. La Campagna ha in corso trattative con catene della grande distribuzione (Coop, Carrefour) per la non commercializzazione dei prodotti, svolge azioni informative nei supermercati, ha promosso una raccolta di firme per una petizione a Coop.
Segnali concreti per esprimere la propria opinione anche nel fare la spesa.
Pax Christi aderisce, inoltre, alla richiesta di disinvestimento, ossia al fare pressioni su aziende, banche ed enti pubblici perché ritirino i loro investimenti parte dell’economia israeliana.

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