Un popolo dipinto di viola
Che i tempi cambino radicalmente non è una novità. Che tutti ne siamo intrigati neppure. Anche se, né come singoli né come società né, tanto meno, come governi, riusciamo a venir fuori dai terremoti che si producono. Siamo ancora sconvolti dall’aver appreso da Wikileaks che non c’è più bisogno di attentati a Sarajevo per scatenare una guerra, se basterà perfezionare l’elettronica. Contemporaneamente siamo certi che i potenti, invece di creare una diplomazia aperta e trasparente, in cui i conflitti si chiamino con tutti i loro nomi e si sia obbligati ad attraversarli senza spararsi tutte le volte che uno appare pericoloso (o lo è davvero), sentiranno a rischio l’onore, la sovranità, la giustizia (?) creando imbarazzi e pericoli perfino ai costruttori di arsenali.
Non parliamo neppure, data l’evidenza, del quadro italiano. Non ci siamo accorti che i partiti hanno deluso non perché siano incapaci o corrotti, ma perché la loro forma è invecchiata senza trovare nuovi “prìncipi” che se ne facciano eredi. È così che la società civile ha ceduto al populismo. Eppure veniamo da una lunga stagione di movimentismi (Pannella – prima di fare anche lui un partito – ne era stato l’inventore), intuitivamente innovatori, ma non in grado di per sé di fare coscienza diffusa. Oggi la gente è ancor più confusa e sfiduciata, dipende dall’informazione televisiva, manca di leader (pensate che cosa ci tocca di accettare!) e, tranne la lamentazione, per ora non sovversiva, si autoesclude da politica e voto.
Dai girotondi in poi
Il “popolo viola”, erede degli ormai lontani (sette anni fa!) “girotondi” è quello che sta ancora mantenendo viva la speranza, anche per la correttezza e tempestività dei problemi proposti. Ne parlava Marco Travaglio (numero 1/2010 di Micromega): “La freccia più potente che il popolo viola può vantare al proprio arco è la capacità di rappresentare un altro mondo rispetto a quello incarnato da Berlusconi e il berlusconismo. Un mondo giovane, mentre il suo è decrepito, un mondo che parla semplice e schietto, mentre lui parla ‘semplicistico ma bugiardo e vuoto’. Un mondo orizzontale che non conosce ideologie mentre il suo è verticale e sempre alle prese con il fossile dell’anticomunismo”. Tuttavia anche Travaglio non sottovalutava il rischio “di disperdere le energie per inseguire falsi obiettivi e battaglie secondarie. Non si può protestare sempre e contro tutto, anche se l’istinto suggerisce di farlo”.
Nel famoso “No B Day” di un anno fa – centomila presenze a Roma – non ci fu solo critica a Berlusconi, ma un forte richiamo alla difesa della legalità e della Costituzione così come alla lotta alla corruzione. Anche la penultima manifestazione “viola” con il contributo di grandi personalità (Stefano Rodotà, Concita De Gregorio, Salvatore Borsellino, Paul Ginsborg, Luigi de Magistris, Vincenzo Vita, ma anche Rosy Bindi e Ignazio Marino) ha visto una grandissima affluenza. Ma non è bastato dire “Svegliati Italia” per far sì che l’Italia si svegliasse. D’altra parte anche Bersani, riprodotto nei cartelloni del corteo come addormentato sui banchi della Camera, chiedeva ogni giorno le dimissioni di Berlusconi senza che succedesse alcunché. Vendola, il più “viola” in un certo senso dei politici in lizza, descriveva: “Qui c’è un’Italia migliore che può vincere. Dobbiamo uscire da questa seconda Repubblica, che ormai è cadavere, e seppellire definitivamente il berlusconismo, ma per fare questa operazione occorre discutere dei problemi... e ritrovare unità: le alleanze di cui voglio parlare sono quelle con i cittadini, con tutti quelli che sono stanchi del teatrino del berlusconismo”. Ancora una volta non basta dire le parole giuste perché il consenso del sentire faccia politica.
La piazza dei viola
Con minor effetto sui media, il 4 dicembre i “viola” sono tornati in piazza, con una novità: la loro consueta ragionevolezza, sempre critica ma realistica, li ha indotti a estendere ai partiti dell’opposizione l’invito a partecipare e a restare uniti. La decisione è stata presa dopo una grossa discussione: la “purezza” di chi non voleva contaminazioni che intaccassero l’autonomia del movimento di protesta e che non aveva mai voluto bandiere nei cortei, intendeva mantenere i principi. Ma la scelta fatta induce a riflettere: se i partiti sono in difficoltà, anche la società civile non va oltre la protesta.
Anche in altre città il popolo viola ha coinvolto le “minoranze attive”, ma con le minoranze non si abbatte B. né si governa. A Bologna ho comiziato anch’io; poi mi sono domandata che cosa mai tenesse alcune persone ferme al margine dei portici a guardare il corteo muta e inespressiva; ma soprattutto come mai la maggioranza della gente non si accorgesse neppure del corteo: potevano essere anche loro oppositori del governo, ma, di fatto – da consumatori berlusconizzati – guardavano le solite vetrine del sabato. Anche il “manifesto” avvertiva che “un ammirevole popolo di ingenui diventa facile strumento dei furbi e si corre il rischio di ridurre la lotta politica solo all’attacco alla persona di Berlusconi”.
Giusto, dunque, partire dall’autonomia della “società civile”; ma il bisogno concreto del “fare politico” ha bisogno di coordinamento e organizzazione. Allo stato sono ancora le rappresentanze costituzionalmente previste per questi compiti, vale a dire i partiti, che fanno da riferimento organico per unificare un’opposizione che davvero comprenda non solo quelli che non hanno mai subito il fascino del grande mentitore, ma anche quelli che, sedotti, non capiscono più dove stanno andando a finire.
Ivan Illich riteneva fondamentale de-istituzionalizzare la società: noi, nonostante segnali lanciati e movimenti espressi, abbiamo perso il treno per far trovare alla storia una società civile matura, pronta a rinnovare, se non sostituire, i partiti. Per reinventarci non troviamo altro che farci noi stessi, se non partito, parte nel gioco, come ha dimostrato Pannella e come dimostrano certe liste civiche locali o l’espediente falsamente ingenuo delle primarie. Non è tempo di favole e di chimere: secondo Illich sarebbe fondamentale descolarizzare le società per liberarsi di fabbriche di futuri non-cittadini, pronti all’adeguamento conformistico e non avvezzi a ragionare in proprio, pagando anche con qualche sacrificio, per risolvere i problemi fondamentali dell’umanità.
D’accordo, purché non ci passi sotto il naso che una descolarizzazione può avvenire anche secondo Maria Stella Gelmini.
La piazza mediatica di Fazio – come mai nessuno alla RAI ha avuto lo stesso coraggio in tanti anni? – e il protagonismo di Saviano hanno impedito a tredici milioni di telespettatori di farsi assorbire da un elettrodomestico alienante e deficiente; ma il fenomeno può essere riassorbito come qualunque fuoco di artificio individuale.
Noi, viola, pacifisti, social-liberali, cattolici critici, associazioni varie come Libertà e Giustizia, ci sentiamo un po’ il sale della terra; ma non si coltiva solo con il sale e si resta minoranza. Le difficoltà che la democrazia incontra anche negli altri Paesi e che vede la sinistra all’opposizione in tutta Europa – e addirittura in Svezia i fascisti in Parlamento – prelude a futuri cambiamenti delle stesse istituzioni.
Per ora capi, capetti e rottamatori non riescono a sciogliere il nodo delle convenienze politiche di progetto e non possono produrre consenso perché restano autereferenziali.
Chi protesta appartiene, che lo sappia o no, alla storia in divenire, ma i “movimenti” sono al tempo stesso – lo diceva Padellaro – pre-politici e post-politici, come dire ingenui e anticipatori.
I viola, che facevano paura ai partiti, senza settarismi hanno teso la mano e, come gli studenti che si sono mescolati ai pensionati, sperano in una politica di alleanze che superi il manuale Cencelli. Per non perdere il futuro. Proprio e altrui.