Gerarchi o profeti?
La spiritualità è un modo di vivere, è la cura delle relazioni con gli altri, con la natura e con Dio stesso, in modo che in esse regni l’amore generoso. Risplende in ciò una giovinezza eterna, incorrompibile e imperdibile, di cui le nuove generazioni sono profezia vivente. Ecco perché alla spiritualità dell’amore vero si contrappone sempre quella mentalità gerarchica che diffida di esso come diffida della novità preziosa che è incarnata da ogni persona. Parlo di “gerarchia” nel contempo in senso antropologico e politico. In tutte le società, e non solo nei regimi apertamente totalitari, esistono i gerarchi. Non coincidono con quelli che per età sono ormai adulti o vecchi, si tratta, invece, di quelli che sono consumati nel lungo uso del potere come dominio. Dunque, non è in discussione chi è anagraficamente in là con gli anni, che anzi può essere persona spiritualmente giovanissima e a cui comunque si deve affettuosa vicinanza, ma è il cinico avvinghiato alla propria posizione di predominio.
Il gerarca ignora il potere come servizio.
Mentre il potere orizzontale si diffonde, va spezzato e condiviso come il pane perché sia a favore di tutti, il potere verticale è esercitato al di sopra degli altri, senza e contro di loro. Perciò questo tipo di potere punta a concentrarsi nelle mani di pochi, è monopolista per natura. L’immagine evangelica del potere verticale è riportata nella tentazione di Satana nei confronti di Gesù, al quale sono offerti “tutti i regni del mondo con la loro gloria” (Mt 4, 8).
È tipica del gerarca l’abitudine di rovinare il futuro delle nuove generazioni. Anche in Italia è radicata questa tradizione gerarchica che vuole il sacrificio di chi è nuovo, più piccolo, esterno al potere verticale. Di conseguenza è normale guardare ai giovani con disprezzo o con angoscia, mai con gratitudine per il dono della loro esistenza. Lo attestano i nomignoli velenosi con cui essi sono comunemente chiamati. Esuberi, perché non servono al mercato del lavoro.
Risorse, perché se dovessero servire come forza-lavoro possono tornare utili a produrre profitto. Bamboccioni, perché non sanno organizzarsi la vita dopo che il mondo adulto ha tagliato loro il terreno sotto i piedi. Poi si dice loro che sono il futuro, per chiarire, con la forza inesorabile dei messaggi non verbali, che il presente ce lo teniamo stretto noi adulti.
Infine, si riassume la condizione dei giovani presentandoli come l’emergenza educativa, mentre la vera emergenza educativa sono gli adulti che, spenti dal nichilismo organizzato di una società che venera il denaro e tutti i poteri verticali, non hanno da offrire nulla di educativo e di sensato. In realtà, i giovani così misconosciuti sono gli stessi che, ancor prima, da bambini e da bambine, spesso non sono stati davvero amati, ma soltanto “protetti” e collocati in spazi in cui non disturbassero.
Sepolcri imbiancati
È esemplare della mentalità dei gerarchi il modo in cui si muovono per rafforzare il loro potere nella gestione politica dei problemi della collettività. Prima costruiscono un ordinamento inadeguato per una certa sfera della vita sociale (per esempio, la sanità, la scuola, le condizioni di lavoro, le pensioni, l’assetto dei media e così via), lo lasciano macerare per anni e anni, cosicché i problemi si aggravano progressivamente. Infine, dopo aver accuratamente escluso l’ascolto dei soggetti coinvolti e le soluzioni vere, mettono in campo le loro “riforme”, che danno risposte apparenti ai problemi reali e inaugurano nuovi problemi, di maggiore impatto negativo. Rimedi peggiori del male iniziale. A quel punto chi osa protestare viene facilmente accusato di essere un conservatore che non vuole il cambiamento. Il vecchio, per restare uguale a sé senza darlo a vedere, si presenta come nuovo.
Gesù ha smascherato questa putrefazione vestita di novità parlando di “sepolcri imbiancati” (Mt 23, 27).
Pensiamo a come la politica in Italia affronta oggi la questione della crisi dell’università. La Camera ha approvato la “riforma dell’università” firmata dal ministro Gelmini. Il tratto più riuscito di questo provvedimento sta nell’essere riuscito a passare con il nome di riforma mentre si tratta letteralmente di una decomposizione dell’università stessa, messa a segno con pochi, micidiali colpi: il taglio dei fondi; la precarizzazione dei ricercatori, gravati per giunta da un carico didattico tale da impedire la ricerca; il trasferimento della sovranità dagli organismi di autogoverno a consigli di amministrazione con forte presenza di rappresentanti di interessi economici privati; attribuzione di ulteriore potere verticale ai rettori; delega totale ai soli professori ordinari nella gestione dei concorsi.
Di fronte a un movimento nonviolento di protesta degli studenti, dei ricercatori e di molti docenti sorto spontaneamente in tutto il Paese, sulle piazze e sui tetti, l’establishment è soltanto riuscito a mandare la polizia e a riversare disprezzo sui giovani. Anziché dare attuazione al diritto umano fondamentale delle nuove generazioni all’educazione, alla ricerca e all’espressione della loro soggettività storica, i gerarchi hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato “riforma della scuola e dell’università”.
Non scandalizzate i piccoli
Di fronte a questa stoltezza credo che la Chiesa non possa più esimersi dal prendere la parola in difesa dei giovani, della scuola e dell’università pubblica, ritenendo una questione del genere di sua piena competenza, perché in essa sono in gioco l’umanità di tutti, la qualità della convivenza, la sorte dei meno garantiti nella società. È, infatti, compito inderogabile della Chiesa l’annuncio di una vita nuova, la cura per il cammino di ognuno, la difesa del bene comune. E se però la Chiesa fosse distratta, comunque è il Vangelo che parla. Torna a risuonare oggi per ogni adulto, per ognuno di noi, la parola di Gesù su chi è di scandalo a chi è più giovane, su chi fa cadere i “piccoli”, impedendo loro di crescere e di rinnovare il cammino della società. Di chiunque faccia questo il Vangelo dice: “È meglio per lui che gli sia messa al collo una pietra da mulino e venga gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli” (Lc 17, 2).
I gerarchi dell’Italia odierna non hanno nulla di simpatico, eppure, per un senso di universale fraternità e di misericordia, bisognerebbe che essi fossero informati – magari con tatto, poveretti, con delicatezza, senza spaventarli – che questa parola vale anche per loro.