Siamo gli ultimi cristiani?
“Un’altra terra è possibile”. Ecco lo slogan – era il gennaio del 2002 – della seconda edizione del Social forum mondiale (SFM), a Porto Alegre, capitale dello stato brasiliano del Rio Grande do Sul. C’era molta speranza nell’aria, e gli oratori intervenuti ripetevano, come un mantra: “Ma non un’altra terra nell’aldilà. Un’altra terra è possibile qui, su questo pianeta!”.
Utopie possibili
Solo un’utopia millenaristica? O uno dei tanti sogni infranti, in questa stagione confusa e segnata più dalle chiusure identitarie e dalle paure diffuse che dall’accoglienza e dal dialogo? È difficile stabilire, in un mondo sempre più saldamente globalizzato e nell’avanzare sicuro di un cristianesimo globale, quanto le religioni, con il loro potenziale di sogni e di profezia, siano in grado di assumersi la loro porzione di responsabilità in vista di un radicale cambiamento etico e ambientale. Le cronache di quel SFM, in ogni caso, raccontano che, tra i mille colori di quel popolo convenuto sulle rive dell’impetuoso fiume Guaíba, si potevano scorgere i paramenti sacri di tante differenti tradizioni di fede: vi si percepiva un pressante pluralismo culturale e religioso, proteso verso l’idea che questo mondo possa essere finalmente altro, differente, qualitativamente diverso.
Ma quale altra terra sarebbe possibile? Perché questa terra sia sostenibile, è necessario che sia altra. La prima sostenibilità è, al contempo, ecologica ed etica: un’etica di convivenza pacifica e di abitabilità; e, di conseguenza, di pluralismo e di giustizia. In che modo le religioni, la spiritualità, la missione possono aiutare questo pianeta ad essere sostenibile ecologicamente ed eticamente, aiutandolo a diventare altro? Significativamente, Benedetto XVI, nel suo Messaggio per la Giornata internazionale della pace (1-1-2011) dedicato a Libertà religiosa, via della pace, rivolge un appello al dialogo interreligioso per collaborare in vista del bene comune; tanto più che “nel 2011 ricorre il venticinquesimo anniversario della Giornata mondiale di preghiera per la pace, convocata ad Assisi nel 1986 dal Venerabile Giovanni Paolo II. In quell’occasione i leader delle grandi religioni del mondo hanno testimoniato come la religione sia un fattore di unione e di pace, e non di divisione e di conflitto. Il ricordo di quell’esperienza è un motivo di speranza per un futuro in cui tutti i credenti si sentano e si rendano autenticamente operatori di giustizia e di pace”. Un richiamo davvero strategico, in una stagione certo non facile per chi opera nel campo del dialogo, che nell’icona dello Spirito dell’incontro di Assisi ha sempre rinvenuto un invito a non scoraggiarsi e a proseguire nel suo cammino.
nuovo scenari
Ecco dunque il presupposto decisivo, anche se non sempre condiviso nella sua ampiezza: l’agenda missionaria la stabilisce il mondo. Non meraviglia, perciò, che in un’epoca di vorticosi mutamenti, l’idea e la prassi missionaria stiano attraversando una crisi d’identità e di crescita. La missione testimonia, annuncia, celebra e opera per un nuovo modo di pensare e vedere gli esseri umani, le creature della terra e lo stesso universo. Già due decenni fa, David Bosch incoraggiava, nel monumentale La trasformazione della missione, a leggere tale crisi con occhi pieni di speranza, e comunque non come qualcosa di meramente accidentale e reversibile, ma piuttosto come l’esito di un basilare mutamento di paradigmi. Come in passato, quando diversi paradigmi della missione si succedettero nel corso dei secoli, ciascuno di essi – sosteneva Bosch – rappresentava la fine di un mondo e la nascita di un altro, in cui dovette essere ridefinita gran parte di ciò che la gente era abituata a pensare e a fare.
Ritengo, in effetti, che l’odierno pluralismo culturale e religioso costituisca un’autentica sfida per il cristianesimo, ma anche un’occasione forse irripetibile di rinnovamento per esso.
Perché anche il cristianesimo – ripetiamolo – è diventato un fatto globale, piaccia o no. Si può ammettere che l’idea di un cristianesimo che sta letteralmente andando verso il Sud sia abbastanza familiare, sia agli studiosi di cose religiose sia agli ambienti missionari, ma molto meno ai media generalisti e ai cristiani feriali. Il tema, infatti, è stato analizzato sin dagli anni Settanta del secolo scorso, quando Walbert Bühlmann coniava un’espressione che avrebbe avuto successo, quella di Terza Chiesa, basandosi sull’analogia con Terzo Mondo, a suggerire come il Sud rappresenti una nuova tradizione paragonabile per importanza alle chiese occidentali e orientali del passato. Sono quegli stessi anni, i Settanta, in cui, del resto, ha cominciato a prendere piede una radicale revisione del ruolo delle congregazioni e degli istituti missionari europei in conseguenza del decreto conciliare Ad gentes e della definitiva decolonizzazione, via via sostituiti da congregazioni nate in loco che ora inviano missionari in altri Paesi del mondo. Già nel ’66, del resto, era stato Karl Rahner a parlare del Vaticano II come del primo Concilio autenticamente cattolico, germe di una chiesa mondiale (Weltkirche) che avrebbe trovato nuove espressioni nella diversità conciliata di popoli e culture.
Oltre le categorie
Cosa comportano queste trasformazioni per la missione? In primo luogo, va denunciato il rischio di trovarsi in un mondo interpretato entro categorie tradizionali e vissuto entro abitudini consolidate, incapaci di cogliere le trasformazioni in atto, e di costruire relazioni positive ed esperienze dotate di senso. Il disorientamento sembra essere la condizione più comune. Come può rispondere a ciò una missione non più ingenua, e consapevole di trovarsi di fronte a quello che Bosch ha definito l’emergente paradigma ecumenico del cristianesimo? Certo, evitando di arroccarsi su posizioni di retroguardia, di rinchiudersi nella difesa di un mondo tramontato, che non può più essere. Eppure, molti imprenditori della politica propongono (purtroppo con successo) la soluzione della chiusura localistica, che fa riferimento a un concetto deprivato, rigido, difensivo di cittadinanza. È la cittadinanza che fonde in modo perverso il sangue (la stirpe, la genealogica) con la terra (la nostra terra), la genetica con la cultura, in barba alla più elementari acquisizioni della scienza. E lo Stato sembra essere tentato, oggi più che mai, avendo drammaticamente perduto presa sul mondo economico, di rilanciare la logica della paura.
Si può immaginare sia possibile che la missione assuma una direzione di marcia diversa, che eviti le trappole e le strumentalizzazioni sia della politica della paura, sia di un mercato lasciato in balia degli animal spirits? La costruzione di un mondo più equo, sostenibile, partecipato e rispettoso delle differenze, è sì e prima di tutto un compito politico, ma è anche un’irrinunciabile sfida missionaria, religiosa, culturale e educativa, che chiama in causa tutti i soggetti che ne sono protagonisti. Per far ciò sarà indispensabile prendere sul serio le trasformazioni in atto, accettare la propria scomposizione, non pretendere di aggrapparsi nostalgicamente a identità che nulla hanno più da dire al mondo, ma cercare nelle proprie storie, individuali e collettive, gli elementi utili a costruire il nuovo. Con gli altri, attraverso il dialogo e la co-evoluzione solidale.
È la missione, in effetti, a essere messa in crisi in modo sorprendente dalla svolta epocale che il villaggio globale sta vivendo, per affrontare la quale occorre una rivoluzione del pensiero, del metodo e delle forme di relazione. Ma anche guardare con occhi nuovi al campo di gioco. Se, infatti, il territorio diviene lo spazio di articolazione tra globale e locale, tra economia dei flussi ed economia dei luoghi, lo scenario entro il quale le differenze s’incontrano e si scontrano, confliggono e si ibridano, allora gli attori del sistema-missione devono partire da qui, da questa nuova categoria interpretativa e da questo spazio di azione. Nel quadro di una necessaria messa in relazione di tutti gli attori educativi (istituzionali e non) che hanno un ruolo rilevante sul territorio, affinché si confrontino sui temi della convivenza nonviolenta, della solidarietà intergenerazionale, della sobrietà materiale e della crescita culturale. Servirà dunque un nuovo patto tra questi soggetti, nella costruzione della cittadinanza glocale.
Ecco il panorama in cui andrebbe inserita la riflessione missiologica. Ai credenti delle diverse chiese, essa è chiamata a porre in particolare due aut/aut. Da una parte, l’obiettivo di un’estensione globale della solidarietà, di una pratica di giustizia, di pace e di salvaguardia del creato su scala planetaria; dall’altra, l’esigenza di un nuovo stile di cattolicità ecumenica, capace di affrontare una dialettica tra località e universalità, e di porsi al servizio di un mondo riconosciuto come casa della vita, nella ricerca dialogica di un’etica condivisibile. Due sfide da far tremare i polsi, ma ineludibili, pena la sostanziale, progressiva insensatezza dell’annuncio evangelico.
Siamo gli ultimi cristiani?
Il teologo cattolico Jean-Marie Tillard, in un libretto intitolato Siamo gli ultimi cristiani? dichiara con estrema semplicità: “I catecheti impiegano tutte le loro energie a parlare di Cristo davanti a uditori che sbadigliano, perché non sono interessati a quanto si dice. I banchi delle chiese sono sempre più vuoti e occupati da persone dai capelli sempre più bianchi, tanto che si arriva a sopprimere delle parrocchie. Nell’insieme, tutta una generazione (quella che costituirà la carne delle società nei prossimi decenni) scivola lentamente non verso l’aggressività verso la chiesa, ma (ed è più grave) verso l’indifferenza”.
Una delle tracce da seguire, in vista di una stagione in cui finalmente le parole religiose tornino a essere, bonhoefferianamente, sensate ed efficaci, è il definitivo recupero della narrazione in teologia e catechesi. Secondo Tillard, se si dà una certezza nella crisi odierna del cristianesimo, è che questa generazione sembra, inesorabilmente, l’ultima testimone di un certo modo di essere cristiani (non direi solo cattolici). In un prossimo futuro – ma già oggi, in realtà, è così – sarà necessario parlare di Cristo non solo dall’alto di una qualsiasi cattedra; e imparare nuovamente che la fede non si trasmette soprattutto attraverso lo spettacolo dell’assimilazione nelle società, ma tramite l’umile proclamazione della differenza evangelica. In un mondo sempre più secolarizzato, pronosticava Tillard, almeno per l’occidente, le chiese – ridotte a piccoli resti di credenti convinti e praticanti la loro fede – saranno indotte, verosimilmente, a raccogliersi attorno all’essenziale: la Parola di Dio e i sacramenti riassunti nell’eucaristia. Due ingredienti di base quanto mai raccontabili, a ben vedere. La Bibbia, costituita in larga parte di narrazioni, e l’eucaristia, racconto dell’ultima cena di Gesù con i suoi amici e a sua volta plasmata su quell’altro racconto-matrice che è il seder pasquale dell’antico Israele.
È tempo di fare nostra, assumendola responsabilmente, la domanda, per nulla retorica, proposta da Tillard: siamo forse gli ultimi cristiani? In un’Europa sempre più ambiguamente sospesa fra secolarizzazione compiuta e postsecolarismo, oltre che preda dell’incertezza e di una paura liquida (Z. Bauman), in una stagione in cui convivono paradossalmente una paranoica bulimia del sacro e un appello sconsiderato allo scontro di civiltà, si può ipotizzare che le chiese siano chiamate e reimparare pazientemente a raccontare; e che sulla loro disponibilità, e capacità, di raccontare la differenza evangelica si misurerà la loro qualità di presenza nel mondo. E, di conseguenza, a vivere il dialogo interreligioso come un’occasione straordinaria di purificazione, e non come una minaccia alla propria (presunta) integrità.