I barconi della speranza
L’acceso dibattito sull’immigrazione non riesce a smarcarsi da un doppio equivoco. Il primo riduce la questione alla capacità di tenere insieme integrazione e sicurezza. È naturalmente un tema importante. Ai criminali non devono essere concessi margini di impunità e va da sé che non si è tali in quanto stranieri: pensare diversamente significa coltivare una forma odiosa di razzismo.
Condizioni di cittadinanza inclusive, in particolare quando si tratta di fondamentali servizi alla persona come l’istruzione e l’assistenza sanitaria, sono parte integrante della nostra Carta costituzionale: è un presupposto “non negoziabile” di coerenza con il modello di una società liberale e democratica.
Tutti sembrano, però, d’accordo nel sostenere che un universale diritto di ospitalità inteso alla maniera di Kant, cioè come facoltà di entrare liberamente nel territorio di altri Paesi alla sola condizione di comportarsi pacificamente con i loro abitanti, non è proponibile. Oggi non parliamo di intraprendenti viaggiatori in cerca di nuove conoscenze o promettenti affari. Parliamo degli imponenti flussi migratori sulle rotte della speranza verso il mondo ricco, che non si sente abbastanza ricco da poter accogliere tutti semplicemente perché lo chiedono. La clandestinità, se non un reato, è comunque un problema e ciò significa che la formula di integrazione e sicurezza rimane una soluzione, magari inevitabile, “di barriera”: si tratta di un nostro problema, che lascia fuori dalla porta la sofferenza di tutti coloro ai quali non verrà concesso di entrare.
Veniamo così al secondo equivoco. È indispensabile che si rispettino gli obblighi giuridici internazionali, ma anche in questo caso è illusorio e anzi senz’altro ipocrita ritenere che ciò esaurisca le responsabilità della politica. Può darsi che nelle modalità di attuazione degli accordi fra l’Italia e la Libia questi obblighi non siano stati pienamente rispettati. Il punto è però un altro. La Convenzione di Ginevra del 1951 e tutti gli accordi successivi ad essa ispirati stabiliscono chiaramente che l’accoglienza è dovuta a chi fugge da una guerra o potrebbe essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, le sue opinioni politiche. La povertà in quanto tale non ha però diritto d’asilo, tanto è vero che la direttiva adottata dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’Unione Europea nel dicembre del 2008 si limita a indicare che gli Stati membri possono decidere di rilasciare permessi di soggiorno per motivi che siano semplicemente “caritatevoli” o “umanitari”. Ma la radice dell’immigrazione è oggi più che mai proprio la povertà. Il rapporto fra il nostro reddito pro capite e quello di molti dei Paesi dai quali scappano gli uomini, le donne e i bambini ostaggio degli scafisti è di 50 a 1. La loro attesa di vita media è la metà di quella dei nostri figli. Integrare tutti coloro che decidiamo di accogliere renderà più serena e anche più giusta la vita nelle nostre città. Ma gli altri continueranno a cercare una strada per arrivare. Perché è quello che faremmo anche noi. È quello che abbiamo fatto in passato. Sono le disuguaglianze, le asimmetrie profonde nella possibilità data a ciascuno di cercare la felicità che da sempre spingono i poveri a “infiltrarsi” nel mondo dei ricchi, secondo una bella espressione di Ryszard Kapuscinski. La globalizzazione, l’informazione, il moltiplicarsi delle vie di comunicazione possono trasformare l’infiltrazione in invasione, specialmente là dove le faglie di questa disuguaglianza si toccano.
Integrazione e sicurezza
Dobbiamo assicurare l’integrazione insieme alla sicurezza. E non possiamo ricacciare verso il deserto chi ha diritto a essere considerato un “rifugiato”. Ma non ci saremo in questo modo liberati dal peso della violenza che rimane comunque impigliata nell’atto e nelle immagini del “respingimento”. Il cristiano sa che dovrà rendere conto della sofferenza che non avrà saputo soccorrere: “Non respingere la supplica di un povero – leggiamo nel libro del Siracide – non distogliere lo sguardo dall’indigente”. La nitida laicità dell’articolo 22 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo non dice niente di diverso, riconoscendo ad ogni individuo il diritto alle condizioni economiche, sociali e culturali che sono “indispensabili alla sua dignità e al libero sviluppo della sua personalità”.
Questo diritto continua a essere negato alla gran parte degli esseri umani. Il respingimento, anche quando dovesse risultare dolorosamente inevitabile, è, in quanto tale, il risultato di una sconfitta: siamo costretti all’uso sistematico della forza per difendere la fortezza assediata del benessere perché non siamo riusciti a rendere il mondo un luogo almeno decente per tutti.
Con la stessa fermezza si deve dire che la clandestinità non risolve i problemi di nessuno: consegna a mani criminali chi ha già molto sofferto e alimenta comunque il circuito del disagio e della marginalità. Quello che serve lo ha ricordato Benedetto XVI nel discorso tenuto nel marzo a Luanda proprio davanti alle autorità della politica: è nei Paesi della povertà che vanno portati il rispetto e la promozione dei diritti umani, una comunicazione sociale libera, scuole e ospedali, la ferma determinazione a stroncare una volta per tutte la corruzione. I barconi marci stracarichi di miseria sono la sintesi di quello che abbiamo realizzato.
È giusto dire che l’Italia non può essere lasciata da sola ad affrontare l’emergenza. Ma occorre chiarezza da parte di tutti. Ed è in questa prospettiva che vorrei presentare una modesta proposta. I candidati alle prossime elezioni rinuncino alla distribuzione dei loro “santini” di sorridente convivialità piuttosto che di improbabili gioie familiari, facciano tacere gli slogan rassicuranti di un’autocertificata competenza e serietà. Ci dicano cosa pensano e cosa faranno rispetto ai problemi dell’integrazione dell’Africa nel circuito del commercio internazionale a parità di condizioni, della sfida educativa attraverso la quale passa anche la formazione della classe dirigente, dell’emergenza sanitaria per la quale si continua a morire per mancanza di acqua potabile e di malaria, prima ancora che di Aids. Ci dicano, insomma, non che bisogna aiutare i Paesi più poveri a prendere in mano il loro futuro. Lo sappiamo già. Ci dicano con quali idee lo faranno e dove chiederanno di prendere i soldi per farlo. Rispondano, per esempio, a una domanda molto semplice. L’Italia contribuirà per il periodo 2008-2013 con circa 500 milioni di euro l’anno al dal Fondo Europeo di Sviluppo, che è oggi il principale strumento della cooperazione. Sono poco più di 10 euro a testa, considerando solo gli adulti. Sono disposti a impegnarsi perché questa cifra sia almeno raddoppiata durante il loro mandato?
Molti soldi li dovremo spendere comunque, perché anche i respingimenti costano. A noi scegliere se farlo con militari e poliziotti o con professori, medici e ingegneri.