Un nuovo Stato
Una tappa sognata, tenacemente voluta e pagata col sangue di milioni di vittime durante 22 anni di guerra civile! Un evento storico, colto con molta soddisfazione dalla gente che ha saputo creare una grande mobilitazione di base al voto, avvenuto in un clima ordinato e sereno. È, dunque, una vittoria popolare che contiene la promessa di un futuro diverso e una speranza di pace che non va tradita.
In questa luce vanno lette le grandi sfide che restano ancora aperte e che vanno superate se davvero nord e sud intendono darsi stabilità politica, buon governo, convivenza democratica, rapporti pacifici. La strada è tutta in salita. I prossimi sei mesi di transizione saranno cruciali per affrontare le questioni propedeutiche alla secessione e vedremo se nord e sud condurranno la mediazione necessaria a dirimere i contenziosi irrisolti.
Restano, per esempio, da definire alcuni tratti di confine; va composta la disputa su Abyei, una zona ricchissima di petrolio contesa tra nord e sud; va posto fine alla guerra in Darfur che rischia di saldarsi con le rivendicazioni di altre aree regionali e di infiltrarsi pericolosamente al sud. Va deciso come spartire i proventi del petrolio, a cui certamente Khartoum non vorrà rinunciare perché garantiscono i privilegi del partito di governo e dell’oligarchia vicina al potere.
Accanto a queste sfide, sia il nord che il sud si trovano ad affrontare una situazione interna del tutto in evoluzione e in fermento. Al nord, crescono i malumori verso il governo che non ha saputo rendere “appetibile” l’unità del Paese durante i sei anni di transizione, come suggerivano gli accordi del 2005. Al sud, il processo di unità nazionale e di costruzione del nuovo stato avviene in un contesto segnato da forti divisioni etniche e da rivendicazioni locali che non esitano a dare vita a fazioni di ribelli e a scontri armati. La fragile situazione interna al nord e al sud è resa ancor più precaria dalla vicinanza di un mondo arabo infuocato dalle proteste di piazza, che hanno saputo rovesciare regimi di tenuta storica e la cui onda lunga sta contagiando l’intera regione.
Ricchezze e guerre
Visti da vicino, i problemi che si presentano alla futura repubblica del Sud Sudan sono tanti e pesanti. Su un territorio potenzialmente fertilissimo e grande più di due volte l’Italia, abitano circa 8 milioni di persone di diverse etnie, il 90% delle quali è sotto la soglia di povertà. Il tasso di analfabetismo è elevato; mancano infrastrutture, servizi di base, strutture amministrative e di gestione del territorio in grado di funzionare come terminali della presenza di uno stato. Una realtà così fragile deve farsi carico anche di quanti, in tempo di guerra, si sono rifugiati al nord e ora ritornano ai loro villaggi. Al momento, secondo l’Onu, sono circa 180.000 le persone che si spostano lentamente, accampandosi ai margini delle strade, in situazioni di emergenza assistenziale. Una volta tornati ai villaggi non trovano né casa né lavoro e necessitano di ogni forma di aiuto. Mentre arrivano i rifugiati col carico dei loro drammi, in parallelo, giunge anche la corsa all’eldorado delle risorse strategiche (acqua, petrolio, ambiente) e al business della ricostruzione.
Lo conferma la grande espansione edilizia di Juba, futura capitale, dove le case prefabbricate sorgono dalla mattina alla sera e tanti moderni edifici spuntano con disinvoltura accanto alle baracche. Uno di questi, segnala l’arrivo dei primi banchieri degli Emirati Arabi Uniti: l’apertura della filiale è stata decisa dopo la firma di una concessione che assegna ai miliardari del Golfo i diritti di sfruttamento turistico su una delle riserve naturali più ricche dell’Africa centrale, nello Stato di Jonglei. Il progetto, nel quale il governo sud-sudanese controlla appena il 30% delle azioni, garantisce agli investitori degli Emirati condizioni di favore, visto che alle società straniere si applicano aliquote fiscali vicine allo zero. Con la motivazione che il nuovo stato ha grande bisogno di investimenti e di crediti, negli ultimi anni sono arrivate a Juba diverse filiali di banche straniere (del Kenya e dell’Etiopia) che, unitamente ad altre autorizzazioni richieste da parte di banche del Golfo Persico, hanno fatto dire a Dier Tong, economista della Banca del Sud Sudan, che quest’angolo d’Africa può diventare la nuova frontiera della finanza internazionale. Ci si attende che, dopo la proclamazione dell’indipendenza, gli affari e la finanza prendano ulteriore slancio. Che ne sarà dello sviluppo del Paese? Sarà “comprato” da potenze straniere? La gente continuerà a essere espropriata del diritto a utilizzare e a godere delle ricchezze del suo suolo e sottosuolo? Un segnale di speranza viene dalle realtà di cooperazione, dai missionari, dagli organismi umanitari, vicini alle popolazioni anche durante i tempi bui della guerra, e che sono in grado di promuovere uno sviluppo gestito dal basso, inclusivo e dignitoso per tutti, specialmente per i più poveri.
Il nord è in difficoltà
Il governo del nord e la sua leadership sono in affanno. La secessione del sud ha aumentato la tensione nelle relazioni tra il governo centrale e le regioni periferiche: Est, Darfur, Kordofan, Blue Nile, aree da sempre marginalizzate e che da sempre chiedono maggiore autonomia attraverso movimenti di opposizione, anche armata. Si profila il rischio che, sull’esempio della secessione del sud, altre entità locali insofferenti del governo centrale, consumino uno strappo decisivo.
Anche le relazioni con le forze politiche di opposizione interna sono diventate critiche: il 29 gennaio, il cartello dei maggiori partiti di opposizione, (National Consensus Forces) ha rivolto un memorandum alla comunità internazionale in cui denuncia e condanna ripetuti e violenti attacchi, chiede il rispetto della Costituzione e l’apertura di un canale di dialogo finora negato; dichiara inoltre che, se non ascoltato, sperimenterà tutti i possibili mezzi pacifici per mobilitare la popolazione in favore di cambiamenti nella struttura e nelle politiche governative.
Accanto al pronunciamento dell’opposizione organizzata è nato un grande fermento tra i giovani, che hanno già organizzato diverse manifestazioni di protesta in differenti località del Paese. Le più importanti si sono svolte il 30 gennaio. Sono state convocate attraverso il web e si sono richiamate esplicitamente alle esperienze della Tunisia e dell’Egitto. Hanno avuto il loro epicentro nelle università di Khartoum, Omdurman, El Obeid, Medani e Kassala. La repressione da parte delle forze dell’ordine non si è fatta attendere: c’è stato un morto, dei feriti, una settantina di arresti, tra cui parecchi giornalisti sudanesi e stranieri ai quali sono stati sequestrati video e apparecchi fotografici nel tentativo di controllare la protesta e impedire l’informazione. Tra i moventi della protesta non ancora sopita, c’è anche il caro vita. All’inizio dell’anno, il piano di austerità del governo, per contenere la crisi, ha tagliato i sussidi per lo zucchero e i prodotti petroliferi causando il rincaro a cascata sui prezzi di altri beni alimentari. È difficile prevedere dove porterà questa protesta e cosa succederà prossimamente. Il governo sudanese, che ha accolto con favore il trionfo della rivoluzione egiziana, ha respinto la possibilità che si ripeta un simile scenario nel Paese. Alcuni analisti, sottolineano le differenze tra la situazione sudanese e quella egiziana e sostengono che un cambio di regime attraverso manifestazioni di piazza non è tanto pensabile al nord. C’è da sperare che il cambiamento avvenga sul piano politico e solo in modo pacifico!