Il principio di comunità
Nella crisi che ci investe, molti si adattano a sopravvivere a testa bassa, nella separazione interiore e nell’isolamento, disposti magari a credere alla rappresentazione televisiva della realtà, ma non alla felicità che ci riguarda. Così, di fronte alle palesi ingiustizie nell’organizzazione dell’economia e del lavoro, secondo strategie presentate come necessarie e benefiche nella società della competizione universale, ad alcuni sembra ovvio che non si possa fare altro che piegarsi. Di fronte al disastro morale e civile della vita pubblica egemonizzata dalla destra berlusconiana, ci si limita ad affermare che servirebbe un maggiore senso della moralità e della legalità. Di fronte al degrado della vita sociale e della dialettica tra le generazioni, si ripete il lamento per i tempi tristi in cui siamo e si denuncia la perdita dei “valori”.
Persone non individui
Ma viene da chiedersi: dove sono le persone in tutto questo? Le si trova per lo più incapsulate dentro vite condotte da soli, in nome e per conto di se stessi. Oppure in piccoli gruppi, strette in una sorta di solidarietà organica, biologica, utile alla sopravvivenza in un ambiente ostile. O, ancora, svaniscono dietro le maschere dei ruoli che rivestono: ruoli affettivi e familiari, ruoli di potere o professionali, sociali, ecclesiali, ben sapendo che se non c’è neppure un ruolo da interpretare non si è nessuno. Il problema sta nel fatto che sovente le persone, nel senso intero e luminoso del termine, dileguano, lasciando al loro posto individui impersonali, atomi sociali che entrano a comporre la massa dei consenzienti al potere, dei consumatori, dei telespettatori, dei numeri delle percentuali nei sondaggi. Incontrarsi tra persone, agire coralmente, vedere espressa in ogni ambito la poesia dell’umanità creativa: sono tutti eventi divenuti rari.
Ecco perché, pur essendo costretti a fare i conti con la radicale crisi italiana e con il disordine del mondo, l’idea stessa di una rinascita risulta impensabile. Esistono alternative? La giusta risposta alla crisi di civiltà si coglie e si sperimenta se si riparte dalle persone che desiderano un mondo diverso e che danno respiro a questo desiderio avendo la saggezza di associarsi, di stabilire legami di cooperazione, di adottare modi di agire capaci di suscitare nuova socialità. Se è vero che gli esseri umani diventano pienamente persone grazie alla partecipazione alla vita di comunità che li educano e li accolgono, è anche vero che senza l’azione di comunità aperte, capaci di iniziativa civile e culturale, la società non si rinnova né può configurarsi in forma democratica.
Prima di tutto comunità
Una conferma della rilevanza essenziale di questo principio comunità nella condizione umana è data dalla situazione attuale della chiesa. Spesso la tipologia dei modi di vivere la partecipazione alla comunità ecclesiale non trova alternative oltre quella tra la coesione autoritaria, il settarismo e la dispersione. Allora la chiesa viene identificata con il Vaticano – dunque con un’entità statale a tutti gli effetti, ispirata dalla ragion di stato – oppure con il proprio movimento o gruppo, nel classico spirito del clan autoreferenziale, o infine con ciò che si immagina e si decide privatamente, estendendo l’individualismo anche alla sfera religiosa.
Di fronte a tutti questi fenomeni di disintegrazione del tessuto umano della società è necessaria una svolta profonda. Una svolta impressa dal sorgere di comunità vitali, tali da porsi come la soggettività mediatrice necessaria a far fiorire le persone e al tempo stesso indispensabile per promuovere la gestazione di una società giusta, pacifica e umanizzata. Per delineare la formazione di un tessuto sociale di questo tipo, Martin Buber parlava di “sentieri in utopia”. Era per dire che ciò che non ha ancora luogo, cioè la società resa pienamente fraterna e sororale, diventa presente attraverso i percorsi quotidiani delle donne e degli uomini che s’incontrano e agiscono come comunità. Certo, questa non può essere un organismo settario, un luogo chiuso, un club. La comunità anzitutto accade nell’evento della caduta delle barriere che mi facevano credere che l’altro fosse uno straniero o un nemico. E quando cadono le barriere e le persone si riconoscono legate per una vita buona comune, servono allora luoghi di accoglienza e di condivisione, punti di ritrovo, tradizioni che diano continuità alla vita comunitaria. Purché sia sempre sorvegliata la loro apertura, la loro capacità di ospitalità, il loro riferimento fedele all’umanità intera e al creato. Infatti, tutte le comunità, compresa la chiesa, sono soggettività di servizio, non un fine in se stesse. Oggi è evidente che il loro servizio è indispensabile. Per la tessitura della giustizia, per la costruzione delle condizioni della pace, per sviluppare la democrazia, per dare una risposta alla desertificazione e alla precarizzazione causate dalla globalizzazione, così da generare un modello alternativo di economia. Per vivere il Vangelo.
Lo spirito comunitario
Non è il caso di immaginare un modello determinato di comunità. L’essenziale è che si diffonda lo spirito comunitario come chiave fondamentale per partecipare alle molte dimensioni della convivenza sociale. Penso a famiglie che abbiano l’ospitalità come loro regola “costituzionale”. O alle comunità di base e a quelle di accoglienza. O, per esempio, a una casa per l’educazione, che in un Paese o in una città sia il luogo di confronto e di ricerca comune per tutti gli educatori. Vorrei anche ricordare l’esperienza di Danilo Dolci che, dal 1952 sino alla morte nel 1997, creò nuclei comunitari popolari nei paesi della Sicilia occidentale, dove le persone potevano confrontarsi sui problemi della vita di tutti i giorni. In ogni territorio devono sorgere comunità aperte di creatività civile, che conferiscano presenza, occhi, orecchie, mani e sentimenti condivisi alla democrazia, che altrimenti resta un mero sistema elettorale utile per legittimare formalmente il dominio delle oligarchie. Aldo Capitini aveva immaginato questi nuclei comunitari in due forme: il Centro di Orientamento Sociale, per le questioni della vita pubblica, e il Centro di Orientamento Religioso, per promuovere il dialogo sulla ricerca di senso. Sono tutti esempi utili per imparare a capire che non usciremo dall’attuale crisi di civiltà se non attraverso l’opera di comunità vitali, nelle quali si possa interiorizzare la percezione del valore infinito di ognuno, imparando ad agire in modo che questo valore sia onorato ovunque.