EDITORIALE

Se non ora, quando?

Nicoletta Dentico

Nessuna di noi si aspettava le 230 piazze italiane che abbiamo visto il 13 febbraio. La qualità del messaggio politico emerso da quella giornata non era scontato. Non possiamo sminuire il significato. Lo dico con lo stupore incredulo di chi ha vissuto l’iniziativa, se volete, con la prospettiva del palco: mi sembra che si possa parlare della irruzione della realtà, con le sue molte espressioni e le sue diverse parole, che in forme anche conflittuali hanno dato forma all’evento ancor prima della sua realizzazione.
La mobilitazione del 13 febbraio ha incrociato un fiume carsico di desiderio civile, di attese, di voglia di esserci. Le facce, le storie, i molti uomini presenti, la diffusa partecipazione intergenerazionale, la modalità anche critica di presenza nella piazza sono tutti corpi che hanno invaso la scena e portato nelle strade una domanda collettiva che cova da molto tempo in Italia, e che ha a che fare con la dignità della società tutta – uomini e donne. La novità è che la mobilitazione delle donne ha coerentemente messo in seconda fila le forze partitiche, il teatrino ossessivo della politica istituzionale.
Se, come scrive Bernard-Henri Lévy, dobbiamo considerare “il posto delle donne nei movimenti sociali come un indicatore sempre eloquente della loro tenuta democratica”, allora la mobilitazione “Se non ora quando?” segna una rottura innovativa nel nostro Paese, ed è un punto di non ritorno che va gestito con molta sapienza, con capacità di ascolto non finto, con enorme umiltà e arguzia politica. L’energia che si è manifestata il 13 febbraio non può essere una rondine di passaggio. Siamo tutte più o meno consapevoli delle trappole che ci attendono, interne ed esterne. Occorre evitare spinte in avanti e forzature. Occorre anche evitare la scorciatoia dell’evento come modalità operativa. Il linguaggio stesso, fuori dalle tentazioni di un politichese sempre in agguato, deve marcare l’impronta di un pensiero capace di accoglienza. Di un’apertura che non vuol dire unanimismo, ma adulto riconoscimento che su molte questioni si abitano prospettive diverse, difficilmente intersecabili.
La responsabilità pesa come un macigno e posa su chi ha convocato questa manifestazione. Ma, dopo il 13 febbraio, la responsabilità posa su tutte e tutti. Su coloro che vi hanno aderito e su coloro che hanno espresso dissenso e critiche anche aspre nei confronti dell’iniziativa, per le ragioni più diverse e legittime (in alcuni casi anche pretestuose). La polifonia di slogan deve essere riconosciuta come forza della piazza. Eppure essa rappresenta la vera sfida del dopo che è già cominciato. Interpella le donne lontane da questa battaglia di genere e quante finora “si sono accontentate della logica del collettivo dove tutti la pensano come me”. Mi sembra che questo polimorfismo sia già un notevole risultato. Un segnale politico da cogliere. Un utile presupposto da cui partire, e da salvaguardare.
Adesso il comitato dovrà organizzarsi in gruppi locali di mobilitazione e trovare metodi creativi di lavoro per raccogliere il paniere più ricco di proposte di lavoro.
Il bene pubblico del 13 febbraio e delle sue numerose significazioni, dovrà indurre tutti a cercare un territorio comune su cui costruire il cambiamento. Il berlusconismo – ovvero quella fattispecie di leadership arroccata alla visibilità e alla parola del singolo individuo, e che considera le donne ancillari a questa forma – ha attecchito nel profondo, anche nei luoghi più insospettabili. La battaglia per un’Italia davvero paritaria dovrà fare i conti con la necessità di estirparne le radici ovunque, tanto a destra quanto a sinistra, nella società civile tanto come in quella istituzionale. Tra le stesse donne che, troppo spesso, hanno assunto modalità di leadership maschili.
Insomma, il 13 febbraio mette in discussione tutte e tutti. Come donne siamo arrivate in ritardo, anche se forse con buone ragioni. Ora però, finalmente, siamo partite.

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