PAROLA A RISCHIO

Operazioni chirurgiche

La guerra in Libia e le sconfitte dell’umanità: è tempo di invertire la rotta e adottare la pace come metodo. Un percorso da seguire insieme.
Roberto Mancini (Professore ordinario di Filosofia Teoretica presso l’Università di Macerata)

Le cause della guerra in Libia e i fattori di questa ennesima sconfitta dell’umanità non sono difficili da individuare. Vi sono fattori ricorrenti e fattori fondativi veri e propri. Provo intanto a elencare i fattori ricorrenti, che infatti troviamo esemplarmente nell’attuale avventura bellica in Libia: la perdurante mancanza di democrazia in molti paesi, mancanza che produce vittime giorno per giorno e non solo quando gli eventi si fanno più cruenti; la consueta e mai superata ambiguità dei paesi “democratici” (che prima appoggiano i dittatori più utili, o in alcuni casi li instaurano e li armano, dopo di che, se il rapporto di utilità viene meno, cercano di eliminarli con attentati o con guerre “umanitarie”); l’abbandono al loro destino di altri paesi che, seppure governati in modo dittatoriale, sono giudicati inutili e irrilevanti; il ricorso al diritto internazionale e alle deliberazioni dell’ONU fatto sempre in una prospettiva utilitarista, giungendo a decisioni che sono la risultante dei rapporti di forza dati di volta in volta tra i governi che hanno più peso sulla scena internazionale; l’uso delle armi, con interventi puntualmente dichiarati brevi e “chirurgici”, in un modo per cui fin dall’inizio viene invece messa nel conto delle vittime una porzione più o meno ampia di quelle popolazioni che si diceva di voler difendere; lo sfruttamento dei vantaggi ottenuti con l’intervento bellico.
D’altra parte, i fattori fondativi del periodico ritorno della guerra si riassumono nell’interazione perversa e perfetta tra due tendenze: da un lato l’incuria per la giustizia e la democrazia effettiva, cosicché si lascia che le situazioni incancreniscano; dall’altro l’appello allo stato di necessità che imporrebbe di intervenire con le armi per difendere i diritti umani. La discussione sugli aspetti etici e giuridici della questione torna ossessivamente sul tema della casistica: ci si chiede in quali casi si può e si deve intraprendere un “intervento umanitario” con mezzi bellici. Però non ci si chiede se sia realmente corretto il punto di vista di chi fa la casistica, che cosa ci sia da considerare prima di essa e dove porti il continuare a ragionare in questi termini. È come affrontare un problema complicatissimo senza memoria, senza intelligenza, senza coscienza e con il cuore oscurato dall’avidità. È un copione veramente stolto. Che cosa può insegnarci tutto questo ?

Percorso
e metodo
La lezione è semplice. Non è possibile costruire la pace e tutelare i diritti umani se non si adotta la pace stessa come metodo dell’azione. La parola “metodo”, nella sua radice, significa via, percorso, modo di procedere. Questa indicazione evidenzia che un ordinamento di pace e di protezione dei popoli dall’arbitrio dei loro governi, o dall’attacco di altri governi oppure di fazioni armate, può emergere soltanto se prende corpo una democrazia internazionale orientata alla giustizia, al rispetto tra tutti i popoli, al comune riconoscimento della dignità, dei doveri e dei diritti umani. Un simile ordinamento deve contare sia su una rigenerazione dell’ONU, sia su sistemi di confederazione macroregionale o continentale che vincolino i paesi di ogni area geopolitica del mondo entro un comune quadro costituzionale.
Un sistema di relazioni internazionali di questo tipo può maturare promuovendo la transizione da un assetto incentrato sulla guerra economica di tutti contro tutti, e sulla lotta tra politiche di potenza contrapposte, a un assetto mondiale nel quale sia normale la cooperazione giuridico-politica ed economica. Il gigantesco, tragico errore di molti governi in questi decenni è stato ed è quello di eludere il dovere di concorrere a questo nuovo ordinamento internazionale per assecondare, invece, la macchina delirante della globalizzazione capitalista.
Proprio la vicenda dell’attuale guerra in Libia dimostra una volta di più che il mitico mercato globale non assicura né ordine né progresso, né giustizia né pace. E dimostra nel contempo che la politica non può ridursi a una lotta condotta da ogni singolo governo o nazione contro il resto dell’umanità. È chiaro che una svolta simile non si realizza a partire da un unico centro di potere mondiale, né dall’egemonia di un gruppo di Stati su tutti gli altri. La maturazione della svolta può avere luogo soltanto attraverso un’azione convergente di democratizzazione paese per paese. Il nodo cruciale è quello della trasformazione dei soggetti della politica internazionale, in modo che ci siano governi sinceramente democratici, ispirati all’adozione della pace come metodo, pronti al dialogo e alla cooperazione. E che si costituisca una forza di polizia internazionale gestita dall’ONU e non demandata alla Nato o ad altre alleanze militari particolari.

Costellazioni
Pura utopia? Come non vedere, invece, che l’azione corale in questa direzione è l’unico modo per interrompere la catena interminabile della politica di potenza e della guerra? La guerra si può fermare soprattutto se la si previene. Oggi a noi spetta la responsabilità sia di far valere l’oggettiva interdipendenza economica tra tutte le nazioni per esercitare una pressione convincente sui governi dittatoriali senza ricorrere alle armi, sia di preparare un ordine politico del mondo che finalmente recida le radici culturali, economiche e politiche delle prossime guerre.
Il compito urgente che ci investe è quello di fare la nostra parte, qui in Italia, per un mondo giusto, pacifico e davvero democratico. Di conseguenza bisogna tornare a onorare la dignità del nostro essere comunità nazionale invertendo la rotta. È doveroso andare nella direzione opposta a quella prevalsa in questi anni, il che significa: assumere la Costituzione come una costellazione di percorsi normativi da svolgere fino in fondo; tornare a difendere i diritti dei lavoratori; riconoscere con giustizia i diritti delle persone straniere; sviluppare una sistematica politica di cooperazione internazionale; promuovere il pluralismo informativo e la fine di ogni concentrazione monopolista nel mondo delle televisioni e dei giornali; garantire l’indipendenza della magistratura; restituire centralità al parlamento; investire nella scuola e nell’università coinvolgendo giovani e insegnanti in un grande progetto di sviluppo dell’educazione, della formazione professionale della ricerca; articolare i poteri amministrativi valorizzando comuni e regioni nel loro ruolo di co-soggetti della democrazia. Chiunque si impegni in questa direzione permetterà all’Italia di diventare una comunità al servizio dell’umanità intera e del suo futuro.

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