Lo spazio degli affetti

Nell’era della persona digitale, globalizzata e liquida, cosa rappresentano le relazioni? Quale spazio e come vivere la dimensione affettiva? Un dossier in ascolto. Di noi stessi, delle nostre emozioni, degli altri.
Patrizia Morgante

Abbiamo bisogno di alimentare la nostra umanità: questo dossier vuole essere uno spazio da abitare più che un flusso di concetti astratti. Vi invito pertanto a prenderlo come un viaggio di scoperta e di stupore. Un bel respiro e iniziamo a camminare...
La dimensione affettiva ed emotiva dell’esistenza è quella che dà sapore e colore alla nostra vita, ma è anche l’origine delle nostre sofferenze e ferite interne. Così gli altri: sono la nostra migliore benedizione, perché senza non potremmo vivere; allo stesso tempo la nostra maledizione: possono darci amore, approvazione o ferirci e farci soffrire molto. Per evitare il dolore possiamo costruirci, consciamente o meno, una barriera interna che ci protegga dall’altro: questo, però, ci impedisce di gustare l’energia vitale che l’altro può far circolare. Le emozioni sono preziose energie vitali, ci offrono tante informazioni sul nostro mondo interno e su quello dell’altro. Se vogliamo vivere con sapore e integralmente la vita, dobbiamo accettare il rischio di soffrire.

Oltre le paure
Ricordo che anni fa Giovanni Paolo II aveva fatto tappezzare le parrocchie con l’invito semplice “non abbiate paura”. Ciò che ci fa fuggire dagli altri, spesso, è la paura. La paura di farci ferire e di soffrire. Cosa ci fa più paura? Il non sentire riconosciuti e alimentati quei bisogni affettivi fondamentali? Che qualcuno ci scopra nudi interiormente, deboli e fragili, vulnerabili?
Dobbiamo imparare a chiederci: cosa sento in questo momento? Di cosa ho bisogno? Per rispondere a quale bisogno sento, penso e faccio questo? E, solo successivamente, le domande alle quali siamo più abituati: cosa penso? Cosa faccio?
Alimentando la nostra umanità, nutriamo la nostra sensibilità e viceversa. Diventare sensibili vuol dire ascoltare, stare attenti ai dettagli (senza diventare ossessivi), non avere fretta nelle risposte, predisporsi ad accogliere la bellezza che viene dai luoghi più impensati. Usare i sensi e lasciarci toccare da essi.
Siamo una nazione spiritualmente sottosviluppata, abbiamo bisogno di apprendere un alfabeto affettivo che nessuna scuola ci insegna. Il dolore e la morte sono tabù. La persona oggi è digitale, globalizzata e liquida. Cosa può aiutarci a non rifuggire la nostra interiorità per accettare di fare un viaggio dentro di noi? L’ascolto, la vicinanza affettivamente significativa? Sicuramente non l’indifferenza e l’anestesia dei sentimenti!
Ho l’impressione che siamo un’umanità ferita, incompleta, analfabeta sul piano dell’umanità. La mortalità la sentiamo in termini di incompletezza, per cui cerchiamo sempre di riempire questo senso di vuoto. Siamo soggetti che si interrogano e spesso rimangono con la delusione di non trovare risposte soddisfacenti. Forse dovremmo accettare la nostra incompletezza e imparare a conviverci. Chissà forse in essa abita il meglio della nostra umanità: invece spesso agiamo come se fossimo onnipotenti, con noi stessi e con gli altri.
Le ferite emotive sono spesso legate a questo vuoto che sentiamo, dal quale fuggiamo perché non lo conosciamo. Un primo passo può essere entrare in relazione con questa parte sconosciuta, giocandoci, toccandola con cautela, imparando a conviverci. Tutti abbiamo delle ferite. Perché non ci facciano male, si tenta di eliminare tutto ciò che ci tocca: la relazione, la comunità, il costruire un noi nelle contraddizioni e nelle diversità. Se si elimina la fatica della relazione si elimina ciò che è più umano dal mondo.
Il dolore può essere un suono assordante, un grido soffocato. Per riconciliarci abbiamo bisogno di fare pace con le nostre ferite interne. Affrontare il conflitto che ci abita è disvelare, togliere il velo alle cose, passare dall’opacità alla trasparenza.
Il perdono è il riconoscimento dell’umanità dell’altro/a: riconosco che l’altro può fare sia il bene che il male. Come ognuno di noi. È parte dell’umanità.
Le relazioni so-no un gioco di energie e confini che si muovono tra ragione e cuore, tra ciò che tocco e ciò che solo intuisco, tra forze centrifughe e centripete, tra apertura e chiusura, tra confine e impermeabilità, tra omogeneità ed eterogeneità. Spero che queste pagine ci aiutino a creare un abbraccio simbolico tra tutte queste istanze.
Vivere in modo integrato e integrale significa tendere alla sintesi di tutte le nostre dimensioni: mente, corpo, cuore e spirito. Potreste non riconoscervi in questo linguaggio e ognuno può dare il nome che sente più vicino, senza che il senso si alteri. Aggiungiamo “spirito” per dare voce alla dimensione mistica del nostro essere, diversa dalla scelta religiosa. Non vorremmo parlare solo di emozioni, ma abbiamo scelto di inserirle nel contesto di chi cerca, di chi si pone domande esistenziali, di chi contempla il mistero, di chi sente che c’è un oltre a ciò che si vede. Per noi questo è alla base dell’atteggiamento empatico, di attesa e di stupore che dovrebbe abitare le relazioni.
I fatti di cronaca, gli eventi politici, gli scandali nella chiesa cattolica ci ricordano che conoscere il nostro mondo interno e usarne tutte le potenzialità ci può aiutare a vivere una vita personale e sociale più integrata e integrante. Accadono sempre più cose che mostrano che non sappiamo gestire umanamente le emozioni e lo facciamo in modo ancora primitivo. Sento una cosa e agisco. Manca la fase intermedia che è fondamentale: l’identificazione e l’accoglienza di ciò che sento... L’educazione affettiva ci consente di passare da uno stadio emotivo primitivo, dove prevale l’azione all’emozione, a uno stadio più evoluto e complesso, dove l’emozione e l’azione sono due momenti separati seppur interconnessi. Conoscere e saper dare un nome alle nostre emozioni ci aiuta a ridurre al minimo la proiezione sugli altri di emozioni che sono solo nostre.
Due punti hanno risvegliato in me questa ricerca verso l’integrazione affettiva: le ricerche in campo neurologico, che ci hanno mostrato un ruolo significativo e ancestrale delle emozioni per la vita cognitiva e sociale della persona; e l’esondazione delle intuizioni della fisica quantistica negli altri ambiti del sapere, che ci forniscono idee nuove per un riposizionamento della persona nell’ambito del cosmo, che ci rende parte di un tutto energetico.
In alcuni passaggi dei contenuti troverete che l’accento si pone su “affettività e vita religiosa”, perché abbiamo rilevato che nel mondo cattolico, spesso, l’affettività è molto repressa, considerata un livello mediocre, non necessario.
Vorrei chiudere con un invito alla consapevolezza: proviamo a pensare a quante volte ripetiamo in un giorno la domanda “come stai?” e alla postura emotiva che abbiamo. Molte volte è una domanda retorica, che non significa realmente ciò che dice, perché non abbiamo né il tempo, né la voglia di ascoltare in modo attento e presente come sta la persona. Proviamo a chiederlo con più consapevolezza, e se non abbiamo tempo di ascoltare, usiamo i nostri messaggi non verbali: lo sguardo, il tatto, un sorriso... E apriamoci ad accogliere i messaggi che l’altro ci manda.
Bisogna fare memoria di questa umanità: oggi è più che mai urgente se non vogliamo lasciarci travolgere da quest’onda del fare cose logiche ma disumane.

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