ULTIMA TESSERA

Le regole della nuova pace

Le chiese verso l’assemblea di Kingston. Buone le premesse per costruire una vera teologia della nonviolenza. Per mettere al bando, definitivamente, ogni giustificazione al ricorso alle armi e alla violenza.
Maurizio Burcini

Mi sono avvicinato al movimento di Pax Christi per trovare compagni di viaggio con i quali condividere quello che nelle chiese si stenta a incontrare: una fede nel Vangelo della pace, cioè in quella Pace di Cristo che è altro dalla pace che sa dare il mondo (cfr. Gv 14,27). Le regole di questa nuova pace sono esigenti, ma allo stesso tempo semplicissime: rispettare l’esistenza di ciascun componente della famiglia umana, non usare mai violenza contro nessuno, e tanto meno utilizzare la violenza delle armi, poiché la nostra vocazione è quella di amare anche chi ci fa del male.
Si deve stravolgere di molto il Vangelo per pretendere che la guerra, la violenza, la difesa armata, risultino “compatibili” con quel Dio inerme che si è lasciato crocifiggere perdonando i suoi aguzzini. L’amore nonviolento di Dio rappresenta la regola essenziale del Regno, che Gesù ha inaugurato: questa è la Parola, quella che il mondo affamato, oppresso, violentato attende e merita, e che la Chiesa deve avere la fede e il coraggio di annunciare.
Troppo spesso le chiese accettano, col loro silenzio – che poi si trasforma in elogio ai caduti – il ricorso alla violenza armata, inglobando così, nel loro impianto dottrinale, la violenza come mezzo lecito in vista di un bene superiore (ad esempio, la propria vita aggredita, o quella di altri innocenti). Ma Gesù, unico nostro Maestro, ci insegna la nonviolenza radicale, sempre e comunque, anche col nemico che aggredisce ingiustamente. Come conciliare questa doppia etica? Quali parole dobbiamo seguire? Quelle di Gesù Cristo, che affronta disarmato la morte ingiusta o quelle di un’etica che, assieme all’amore, prevede anche la violenza come possibilità? San Paolo, scrivendo ai Corinzi, riconosce di non poter predicare altro che “Gesù Cristo e questi crocifisso”. Dunque, l’annuncio della chiesa non può fondarsi “sulla sapienza umana” che oggi confida nelle bombe giuste, intelligenti e inevitabili – ma solo sulla “potenza di Dio”, che è agli antipodi dei nostri modelli (per quanto consolidati), poiché, riguardo a quelli, si è rivelata come impotenza (cfr. 1Cor 2, 2-16). La difesa, soprattutto verso gli altri, è sicuramente un dovere, ma deve trattarsi di una difesa attiva nonviolenta, cioè – parafrasando il Vangelo – “non come la dà il mondo”.
Seppur corrotte dallo scandalo delle divisioni e degli antagonismi, le chiese di tutto il mondo hanno colto la luce dello Spirito e, dopo secoli, hanno saputo riconoscere le gravi incoerenze e colpe che hanno caratterizzato la loro predicazione e la loro vita in tema di pace (e quando si parla di pace, oggi si intende anche parlare di giustizia sociale e di salvaguardia del creato). Hanno deciso di rimediare, perché le sorti e il bene della famiglia umana sono la priorità assoluta da salvaguardare – di fronte alla quale tutte le questioni dottrinali ancora irrisolte passano necessariamente in secondo piano. È a motivo di tutta quest’aria di novità – che oggi sospinge le chiese per farle convergere sul grande tema della pace (A Kingston il tema ‘Pace’ verrà affrontato attraverso 4 prospettive: pace nella comunità, pace con la terra, pace nel mercato, pace tra i popoli) – che l’incontro ecumenico internazionale di Kingston, del prossimo maggio, assume un’enorme importanza: cosa riusciranno le chiese a dire, a una voce sola, sulla pace di Cristo?
Il Consiglio Ecumenico delle Chiese, finora, si è espresso a volte in modo ambiguo o contraddittorio o in favore della legittimazione della violenza per il raggiungimento della giustizia e della pace. Lo ha fatto invocando il principio del “male” minore: non ha potuto mai usare il Vangelo per giustificare le sue posizioni a favore dell’uso delle armi. A parte pochissime eccezioni, è mancata, fino a oggi, una vera risposta teologica rispettosa con il dato della rivelazione ultima e definitiva di Gesù. Finora è mancata una teologia della pace, poiché i palazzi dell’istituzione sono ancora presidiati, strenuamente, da quel che resta della vecchia teologia della guerra, i cui effetti devastanti, passati e presenti, sono sotto gli occhi di tutti. Per questo, l’ultima assemblea mondiale del CEC celebrata nel 2006 a Porto Alegre, da un lato non è stata in grado di scostarsi dalla tradizionale legittimazione di un certo tipo di violenza, ma allo stesso tempo ha invocato l’esigenza profonda di una presa di posizione ufficiale delle chiese sulla pace, nella forma di una dichiarazione ecumenica; la condizione richiesta, che emerge dai documenti finali, è che la pace poggi su una solida e ben articolata teologia (cfr. Assemblea di Porto Alegre, ‘Dichiarazione sulla responsabilità di proteggere), che, come dicevo, oggi ancora manca. A Porto Alegre va dato il merito di averlo denunciato alla comunità cristiana, al fine di risolvere l’annosa questione chiesa-violenza che corrode la fede e la credibilità del Vangelo.
La lunga storia ecumenica ha ormai posto tutte le premesse affinché questa grave lacuna teologica venga colmata: Kingston ha, per questo, tutte le carte in regola affinché un evento storico si possa compiere.
Le chiese volgeranno insieme i loro sguardi al Cristo crocifisso che annuncia la sua pace scandalosa, o sceglieranno ancora la strategia della ‘pax humana’, nel cui bagaglio etico trova spazio la non-inevitabilità della guerra e la legittimità della difesa armata, organizzata in forma di eserciti? Se l’assemblea di Kingston si lascerà animare dall’azione dello Spirito, sarà possibile aggiungere al mosaico incompleto della teologia della pace, i tasselli che le mancano per completare un quadro dottrinale “vivo e coerente” con la Pace di Cristo. Non sarà, dunque, un semplice compito teorico-dottrinale, perché, da quell’abbozzo di mosaico, potrà prendere finalmente forma il volto intero del Gesù-nostra-pace (cfr. Ef 2,14), e i credenti riceveranno la forza per seguire e diffondere quella Pace inedita in grado di rivoluzionare il mondo violento che il nostro peccato ha non solo costruito, ma anche giustificato. Sarà una tappa nuova e decisiva del Regno che si compie, “in terra come in cielo” (Mt 6,10).

Pax Christi a Kingston
L’intero movimento di Pax Christi, compresa la sua sezione italiana (rappresentata all’Assemblea da due delegati), si trova coinvolto in questo evento ecumenico di portata mondiale.
Lo statuto di Pax Christi Italia contempla “il rifiuto assoluto della guerra e di ogni suo preparativo”, e promuove “il metodo attivo della nonviolenza”. Va da sé che i nodi teologici del ricorso alle armi e dell’uso legittimo/illegittimo della violenza siano quelli sui quali Pax Christi è chiamata, in modo particolare, a riporre molta attenzione, visto che toccano le corde più intime della sua vocazione ecclesiale.
La domanda fondamentale sulla quale i credenti sono chiamati a confrontarsi e a dare risposta, è la seguente: la nonviolenza radicale, quella delle beatitudini, è solo un invito rivolto alle singole coscienze o una prerogativa non negoziabile per le chiese, e dunque per la realizzazione del Regno?
Sarà interessante vedere come questo tema verrà assunto dall’assemblea di Kingston e, soprattutto, come verrà declinato nella dichiarazione finale sulla pace. Una presa di posizione, piuttosto che un’altra, non sarà una scelta indifferente, poiché potrebbe segnare, per le chiese, un nuovo e radicale impegno, in discontinuità con la tradizione passata. La novità di Kingston è proprio qui: il ruolo della violenza nella chiesa viene messo in discussione. La pace di Dio supera i secoli; e benché superi anche ‘ogni umana comprensione’ (cfr. Fil 4,7), la fede in Cristo invita a lanciarsi, quasi a occhi chiusi, verso quell’apparente irrazionalità, abbracciarla e renderla, così, credibile e realizzabile. Speriamo che le chiese, a Kingston, si prendano per mano e facciano, insieme, il salto più difficile che la fede richiede: il salto che fa superare la corrente follia della violenza “giusta” e porta sulla sponda della pace “giusta”, cioè della nonviolenza.

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