Tempo di guerra
Parliamo di Libia. Voci a confronto.
L’intervento militare internazione in Libia apre tanti, tantissimi, interrogativi. Sui linguaggi della politica (intervento militare o guerra?) sul ruolo delle istituzioni internazionali nei conflitti, sulle armi, gli accordi economici con dittatori e dintorni. Molto di quello cui assistiamo interpella anche il mondo del pacifismo e di chi opera, con sguardo nonviolento, in spazi pubblici. Tante sono state le dichiarazioni di movimenti e associazioni per la pace. A partire dal mondo nonviolento, è tempo di riaprire il dialogo su uno dei nodi critici e aperti del nostro tempo: l’intervento militare nei conflitti. Ecco, quindi, a confronto, alcuni esponenti di diverse associazioni e movimenti.
Cosa pensi dell’attuale intervento militare in Libia?
Mao Valpiana (presidente del Movimento Nonviolento): Il punto sta proprio nel modo con il quale viene formulata questa domanda. Se si domanda “cosa pensi dell’attuale intervento militare in Libia?”, oppure se di domanda “cosa pensi dell’attuale guerra in Libia?”, si possono avere risposte diverse. Io penso che quella in Libia sia una vera e propria guerra. Gli strumenti utilizzati (bombardieri, caccia, tornado, missili, incrociatori, portaerei, ecc.) sono quelli tradizionali della guerra. Come in Iraq, come in Afghanistan. E tutti noi sappiamo che in base ai capisaldi della convivenza civile, del pensiero umanistico di ogni epoca e di ogni cultura, in base al quinto comandamento, al vangelo dei cristiani, al preambolo dell’Onu, alla Costituzione italiana: la guerra è un crimine,“il più grande crimine contro l’umanità”. Dire invece che quello in atto in Libia è un “intervento militare”, fatto per un nobile e urgentissimo motivo, come quello di evitare un massacro di vittime innocenti da parte delle milizie di un dittatore, significa voler creare una giustificazione e una legittimazione non solo per la necessità di un intervento da parte della comunità internazionale, ma soprattutto per le modalità con le quali si è sviluppato l’intervento stesso. Quindi, per legalizzare la guerra.
Sergio Paronetto (vice presidente Pax Christi): Pax Christi l’ha definito “uscita dalla razionalità politica”, una sorta di “odissea” verso l’autodistruzione. Quanta malizia oggi in chi chiede “dove sono i pacifisti”. Secondo me, chi lo fa, a destra o a sinistra, rivela l’imbarazzo (o l’ipocrisia) del suo vuoto politico. Dichiara la sua lontananza da una politica di pace che deve essere permanente, attenta a tutte quelle opere costruttive che gli “operatori di pace” propongono da decenni ma che spesso vengono irrise da politici distratti o complici, fino a ieri, del male che oggi vorrebbero velocemente eliminare (ora Gheddafi, ieri Saddam e Bin Laden). Un altro giudizio superficiale alquanto diffuso riguarda l’uso del termine pacifismo che è diventato ambiguo e carico di opposti pregiudizi. Preferisco la parola ampia, intensa e profonda di nonviolenza. Quando cominciano operazioni militari come quella contro Gheddafi, davanti alle proteste degli “amici della nonviolenza”, si ripete che la nonviolenza o è un azzardo irresponsabile o è una vaga aspirazione improduttiva o è una scelta encomiabile ma solo personale. La politica è un’altra cosa, si esclama. E invece no! Occorre dire che è la guerra un’altra cosa dalla politica, che è fuori di ragione (alienum a ratione). Solo se è anche politica la nonviolenza può esprimere il suo significato, quello di “costruire la pace con mezzi di pace”.
Francesco Martone (membro del Tribunale permanente dei Popoli, membro onorario della Rete “Parliamentarians for Nuclear Non-proliferation and Disarmament”): Quando c’è una guerra di mezzo le posizioni si polarizzano, tra chi è contro la guerra senza se e senza ma e chi nel caso della Libia sostiene l’intervento internazionale a fianco dei “nuovi resistenti al fascismo verde di Gheddafi”. Scompaiono così dalla discussione quei civili che restano presi tra i fuochi incrociati di una guerra civile ormai internazionalizzata e vittime di una spietata repressione da parte delle forze “lealiste”. Il vero oggetto di discussione in realtà dovrebbe essere il fatto che la risoluzione 1973 marca un passaggio epocale nella storia delle Nazioni Unite, fondandosi per la prima volta sul principio della responsibility to protect (R2P). Un principio sviluppato in seguito alle stragi di Srebrenica e Ruanda per provare a delineare un approccio che mettesse al centro i diritti e la dignità delle persone rispetto a quelli della sovranità degli stati. Il principio della R2P non deve essere applicato attraverso gli strumenti propri di un approccio “militare” alla sicurezza. Invece le modalità con le quali si è giunti all’intervento internazionale in Libia evidenziano come si volesse dare massima enfasi allo strumento militare, con la finalità ultima di contribuire ad abbattere il regime di Gheddafi. Inoltre, per evitare doppi standard l’uso della R2P deve essere ancorato a processi decisionali ampi e democratici. Il fatto che tale decisione fosse lasciata al Consiglio di Sicurezza rende ancor più evidente il rischio di un approccio opportunistico alla R2P fondato essenzialmente sugli interessi strategici o di “realpolitik” dei principali attori politici globali, Francia in primis. Così un principio condivisibile di “non-indifferenza” verso le vittime di violazioni dei diritti umani viene tradotto in pratiche o modalità di applicazione che rischiano di creare pericolosi precedenti. Queste sono in sintesi le ragioni prime della mia critica all’intervento internazionale. Il come in questo caso determina il cosa.
Lisa Clark (Beati i costruttori di pace): Devo confessare che, dopo tanti anni (16, a parte la parentesi libanese) di umiliazione ed emarginazione dell’ONU, sono stata colta da un eccesso di speranza quando è stata adottata la risoluzione 1973. Mi spiego: da giorni soffrivo. La richiesta della No-Fly zone non era accettabile per me – un’azione di guerra, l’ha detto anche Gates, con strumenti di guerra. Ma continuavo a pensare alla Bosnia, e ad Alex Langer. Nei mesi della tarda primavera del 1995 ricordo le roventi discussioni e la decisione sofferta di Alex di appoggiare la richiesta di bombardamenti Nato come ultima risorsa per far finire la guerra. Io rimasi contraria, e in Bosnia a quell’epoca ci vivevo. Dicevo “le bombe non portano la pace.” Avevo ragione. Le bombe non portarono la pace: la pace si costruisce con le mille azioni che avrebbero dovuto seguire quei bombardamenti dell’agosto 1995. Ma le bombe posero fine alla mattanza. Aprendo dentro di me un rovello che non mi ha più lasciato in pace. Sentivo, dunque, la forte necessità che si facesse qualcosa. E non avevo più le certezze di chi ripete ritmicamente “contro la guerra, senza se e senza ma”. Quando lessi la risoluzione 1973, la trovai ottima: ricordo che, ad alcuni, scrissi “L’ONU è rinata” … coprendomi di ridicolo quando, poche ore dopo, i Rafale francesi mi aprirono gli occhi: il percorso graduale ed integrato – cessate il fuoco, embargo, mediazione, protezione dei civili – era stato gettato al vento. Pur – forse – non in violazione della lettera, si trattava di una cinica violazione dello spirito della Risoluzione e dell’ONU stessa. E oggi si parla di azioni di guerra a sostegno dei ribelli: questa diventa una violazione anche della lettera della Risoluzione, che invece chiede cessate il fuoco, embargo sulle armi totale – su tutto il territorio.
Luciano Bertozzi (collaboratore di alcune riviste di area): Come si fa a combattere una “guerra umanitaria” e poi rispedire indietro i migranti senza accordare quella protezione umanitaria peraltro prevista dalla stessa legge Bossi-Fini e stipare all’inverosimile Lampedusa per far scoppiare una guerra fra poveri? Mentre il governo si piange addosso per 5.000 profughi accolti in maniera disumana, la Tunisia ne ha accolti oltre centomila senza chiedere contributi all’Europa.
Ecco il risultato dell’ennesima guerra per il possesso delle risorse naturali, ecco un altro motivo che ci dovrebbe spingere a ridurre la dipendenza petrolifera e investire sulla green economy; invece il governo fa il contrario.
La guerra ci dice che armare e coccolare i dittatori non è una politica lungimirante. Oggi dobbiamo difenderci dalle armi vendute anche dall’Italia. Dispiace che il presidente Napolitano difenda la nostra partecipazione al conflitto, secondo lui senza calpestare la Costituzione; e dispiace che non dica una parola sulle vendite di armi irresponsabilmente consentite da tutti i governi, nonostante già in passato le armi italiane siano state usate in guerra da Gheddafi (Ciad, ecc).
Dispiace che i potenti della terra non siano capaci di andare oltre le esibizioni muscolari, bombardamenti e affini senza proporre soluzioni politiche. Un minuto dopo l’approvazione della risoluzione Onu gli aerei erano già pronti a colpire la Libia, senza aver prima tentato la strada della mediazione. Rimane il problema dei ribelli, che probabilmente senza l’intervento aereo sarebbero stati massacrati. Oggi, però, si presenta il dilemma che le forze di Gheddafi sono nelle città e si colpiranno anche i civili e poi sarà necessario, sempre per “salvare vite umane” l’intervento di terra. Cioè un’escalation senza fine
È necessario che la classe politica, il governo e l’opposizione facciano un mea culpa sull’acritico sostegno a Gheddafi, che rendano “carta straccia” il trattato di cooperazione italo-libico ed evitino altri accordi per respingere i migranti dal nord Africa sostenendo gli apparati repressivi: la nostra politica estera non può essere dipendente da ENI e Finmeccanica ma dal rispetto delle libertà fondamentali.
Quale sono/possono essere le strade, le questioni, le aree di possibile contributo dei movimenti pacifisti e, più in generale, della società civile?
Mao Valpiana: Difendere le vittime inermi è doveroso. Non farlo sarebbe “un’omissione di soccorso”. Ma bisogna farlo con i mezzi adeguati, coerenti con il fine. Per questo siamo sempre stati favorevoli al diritto e alla polizia, due istituzioni che servono a garantire i deboli dai soprusi dei violenti. Per questo siamo impegnati per lo studio, la ricerca, la sperimentazione e l’istituzione di Corpi Civili di Pace. Chiediamo la diminuzione dei bilanci militari e il sostegno finanziario alla creazione di una polizia internazionale, che intervenga nei conflitti a tutela della parti lese, per disarmare l’aggressore e ristabilire pace e diritto. La proposta politica dei nonviolenti è quella di uno stato che rinunci al proprio esercito nazionale, e si impegni a fornire mezzi, finanziamenti e personale per la polizia internazionale di cui si dovrà dotare l’Onu. Ciò significa uscire dal paradigma arcaico “se vuoi la pace prepara la guerra” ed entrare finalmente nella civiltà fondata sul paradigma nuovo “se vuoi la pace prepara la pace”. Facciamo in modo che questa ennesima guerra che non riusciamo a impedire, ci dia almeno la forza per porre all’ordine del giorno della politica la costruzione delle sue alternative.
Sergio Paronetto: Secondo me, occorre essere meno dispersivi o autoreferenziali o dottrinari per sviluppare le ragioni politiche della nonviolenza, cioè la nonviolenza come progetto politico e civiltà del diritto. è bene insistere sul fatto che una politica di pace con mezzi di pace non è mai una fuga, tanto meno un lasciar uccidere. è uno sguardo nuovo sulla realtà conflittuale, un modo diverso di difendersi o di ripristinare i diritti violati. La si sta studiando da tempo con varie ipotesi: polizia internazionale, dispositivi vari sotto il controllo-coordinamento dell’ONU, Corpi Civili di Pace (mai organizzati dai governi e mai realmente perseguiti dai movimenti), resistenza e liberazione, obiezioni di coscienza, giustizia ricostituiva, percorsi di dialogo, intercultura, spiritualità. Penso sia utile rilanciare la centralità di un’ONU fedele ai suoi principi e rinnovata nei metodi, la difesa della legge sul commercio delle armi, il disarmo, il blocco degli F-35. La nonviolenza deve essere voluta, organizzata, pagata “a caro prezzo”, anche se molto inferiore allo spreco distruttivo di imprese militari omicide, rischiose e costosissime (una settimana antilibica costa circa 100 milioni di dollari). è necessario rifare la nostra politica estera, risvegliare l’Europa dal pesante sonno anglo-francese e italiano, ripartire dal diritto internazionale. Ognuno può farlo secondo i suoi orientamenti. L’Onu e la Costituzione sono per tutti. Per i cattolici, penso sia anche il momento di approfondire il magistero inascoltato di Giovanni Paolo II che, soprattutto negli ultimi anni, ha proposto un cammino di nonviolenza.
Francesco Martone: Anzitutto chiedere con convinzione il cessate il fuoco, per evitare il rischio di una escalation ulteriore e aprire uno spazio di mediazione che permetta una cessazione definitiva delle ostilità, l’invio di una forza di interposizione ONU e l’avvio di una transizione che preveda l’uscita di scena di Gheddafi secondo le modalità che i libici sceglieranno. Poi adoperarsi per l’accoglienza di coloro che fuggono dal conflitto, aprendo corridoi umanitari e canali di dialogo e scambio con le realtà sociali che animano questa rivolta per la democrazia e i diritti del popolo libico. Più in generale, il movimento pacifista dovrebbe impegnarsi per avviare una discussione sul tema dell’ingerenza umanitaria, e sulle possibili modalità di prevenzione dei conflitti e dei crimini contro l’umanità. Si potranno, ad esempio, approfondire una serie di proposte di riforma delle Nazioni Unite che diano competenza per decidere di eventuali interventi internazionali al Consiglio di Sicurezza e che prevedano l’uso di contingenti di interposizione sotto il comando ONU e non sotto comando e direzione operativa della NATO o di una coalizione di volenterosi.
Lisa Clark: Negli ultimi anni abbiamo rallentato il lavoro sui grandi temi della prevenzione, delle soluzioni noviolente dei conflitti (i Corpi Civili di Pace, che non erano – nell’idea originale elaborata negli anni Novanta - semplicemente un modo per trovare soldi istituzionali per portare avanti piccoli, seppur pregevoli, progetti di condivisione con i popoli nelle zone di guerra).
L’Italia ha incluso l’art. 11 nella sua Costituzione, ma non ne ha mai veramente abbracciato lo spirito: significa attivarsi affinché prevalgano le culture di giustizia e pace nel mondo… e non semplicemente non partecipare alle guerre.
Temi su cui serve dibattito, anche tra le persone che si dichiarano “pacifiste” e/o nonviolente:
1. Sovranità nazionale. Mi fanno ribrezzo molti dei discorsi sentiti in questi giorni tra i “pacifisti”: non si può toccare la sovranità della Libia. I diritti umani sono universali (questa è la novità giuridica della Dichiarazione del 1948), e proprio per questo, sarà sempre compito delle Nazioni Unite, di “Noi, popoli delle Nazioni Unite”, intervenire laddove vengono violati.
2. Che poi si raccorda con il principio della “responsibility to protect”. Approvata dall’Assemblea Generale, sotto Kofi Annan, devo ammettere che l’ho vista anch’io come una specie di grimaldello che gli stati avrebbero potuto utilizzare per fare le guerre selettive che interessavano loro. Invece, credo che dovremmo prendere sul serio il principio e non trascurarlo a causa del modo in cui può essere strumentalizzato. Perché il principio ci appartiene, appartiene alla visione nonviolenta di un’umanità solidale.
3. E, in generale, le Nazioni Unite. Istituzione umiliata negli anni, piegata al volere e agli interessi dei forti, ormai screditata tra tutti, anche tra i giovani che si richiamano a una cultura di pace. Rilanciamo una forte difesa dell’unica istituzione che abbiamo, che nella sua Carta strapazzata da interpretazioni strumentali è l’unico strumento internazionale che mira a tenere a bada le sovranità armate. Con un grande sostegno di popolo (globale) forse l’ONU potrebbe riprendere il suo ruolo di garante, per “salvare le future generazioni dal flagello della guerra”.