AMERICA CENTRALE

Servo di una chiesa indigena

Ricordiamo tatic Samuel Ruiz, con il popolo, accanto al popolo del Chiapas nella lotta per i suoi diritti.
Alberto Vitali

Quando nella primavera del 1994 il mondo iniziò a conoscere la figura di un piccolo grande vescovo del sud est messicano, Samuel Ruiz era già in cammino con la sua gente da 34 anni. Fino ad allora aveva, infatti, condiviso il loro nascondimento – forse sarebbe meglio dire il loro abbandono – e, a sua volta, divenne famoso soltanto nel momento in cui i discendenti degli antichi Maya si imposero all’attenzione internazionale.
Nominato vescovo di San Cristóbal de las Casas nel 1959, ad appena 35 anni, gli inizi del suo ministero furono all’insegna della più comune pastorale del tempo: organizzazione della diocesi, visite pastorali, attenzione ai problemi dei poveri... che nel caso del Chiapas coincidevano con le etnie indigene e – sebbene manchino dati precisi – rappresentavano certamente la stragrande maggioranza della popolazione. Alla fine del suo mandato, infatti, nell’anno 2000, il territorio diocesano (suddiviso nel frattempo in tre diocesi omogenee), conterà 1 milione e 300 mila abitanti, di cui il 75% indigeni, appartenenti a cinque etnie, identificate da lingue proprie ma tutte appartenenti alla famiglia mayense.
Ben presto però due eventi, assai diversi per natura e portata, sconvolsero la tranquillità di quella routine. A Roma, nel 1962, si aprì il Concilio Vaticano II. Samuel Ruiz vi partecipò in qualità di padre conciliare (tra i più giovani) e si lasciò interrogare profondamente dall’attenzione che la cattolicità iniziava finalmente a riservare alle chiese del cosiddetto Terzo Mondo. Rientrò, quindi, pieno di entusiasmo e deciso a realizzare quelle intuizioni, fin negli angoli più remoti della Selva Lacandona, quando un “fattaccio” lo spinse ad analizzare severamente la realtà in cui operava, senza più sconti per nessuno... a partire da se stesso: “All’inizio ero come un pesce che dorme con gli occhi aperti... avevo gli occhi aperti, ma non vedevo la realtà... Vedevo gente povera, chiese piene, gente che cantava; sentivo che c’era una dimensione di religiosità straordinaria... Ma un giorno mi riferirono che avevano tenuto un indigeno legato a un albero e lo avevano punito, fustigandolo, proprio mentre ero in visita in quel luogo…”.
Da ciò comprese come una pastorale “indigenista” – vale a dire, limitata a considerare gli indigeni come oggetto di cure pastorali, ma non ancora protagonisti della propria esperienza di fede – fosse completamente inadeguata per la crescita delle chiese autoctone, invocate dal Concilio e si orientò decisamente verso la realizzazione di una pastorale autenticamente “indigena”. Per questo però – e fu la seconda grande intuizione che lo guiderà sino alla fine – era necessaria un’inversione di rotta anche dal punto di vista culturale. Se in un primo momento, infatti, si era proposto d’insegnare agli indigeni il castigliano, perché potessero affrancarsi dalla loro situazione, in seguito si rese conto della necessità di valorizzare i loro propri idiomi e le loro culture. Decise così di studiarle e promosse la traduzione dei testi sacri nelle loro lingue... non senza difficoltà e qualche aneddoto buffo.

Il dono delle differenze
Come più volte ci avrebbe lui stesso spiegato, infatti, le differenze linguistiche non consistono solo nell’apparato fonetico o grammaticale, ma anche e soprattutto nel modo di concepire la realtà di cui sono portatrici. Espressioni e simboli propri di una lingua possono essere completamente assenti in un’altra; resi nei modi più disparati o persino con circonlocuzioni di differente lunghezza. E così, quando tradussero l’Ave Maria, scivolarono rovinosamente sulla parola “figlio”, concetto espresso con “nichan” o “alan” a secondo che sia riferito al padre o alla madre. Poiché, però, i traduttori (ignari della differenza) sentivano utilizzare prevalentemente la prima forma, la adottarono per “il figlio del tuo seno” e così la insegnarono alla gente... Quando però fu scoperto l’errore, Samuel Ruiz chiese agli indigeni perché non glielo avessero fatto notare, per sentirsi candidamente rispondere: “Oh padre, ci avevi detto che questa nascita era un mistero!”.
Tanto bastò al buon vescovo perché, in vista di traduzioni ben più impegnative (dapprima dei Vangeli poi di altri libri della Bibbia) chiedesse alle comunità di farsi carico dell’intero processo... per restare poi ammirato e stupito nel vedere come la traduzione in quelle lingue – antiche e costruite sulla triplice ripetizione delle frasi più importanti – assomigliasse molto ai testi originari. Da biblista, laureatosi al Pontificio Istituto Biblico di Roma, poteva, infatti, ben apprezzare quel lavoro: “Che impressione quando mi ritrovai il testo del prologo tradotto nelle loro lingue! Sembrava di avere tra le mani l’originale di San Giovanni”.
Nel frattempo e nel modo più naturale possibile, alcuni indigeni avevano iniziato a farsi carico della catechesi nelle proprie comunità e da questo all’ordinazione dei primi diaconi nativi il passo fu breve. Quanti ebbero la fortuna di accompagnare quel tratto di cammino della chiesa chiapaneca, giurarono di essere testimoni di un’esperienza paragonabile soltanto a quella della primitiva comunità cristiana. Lo Spirito soffiava davvero forte e niente sembrava potesse più interrompere quel processo. Ci pensò invece la norma canonica. Perché, si sa, il celibato sacerdotale pare essere un punto irrinunciabile per la chiesa latina (con le dovute eccezioni!); al contrario, per la cultura indigena una persona non ha completato il proprio cammino di maturazione e perciò non è pienamente affidabile, fin quando non abbia costituito una propria famiglia. Per questo un single non potrà mai aspirare a nessun incarico di responsabilità all’interno di una comunità indigena: se, infatti, non può dimostrare di saper guidare il più piccolo nucleo comunitario, come fidarsi ad affidargliene una grande?
Mai dimenticherò l’impressione seguita alla visita nella comunità di Nueva Jerusalén, la più grande base zapatista del Chiapas nel 2000 e per questo assediata dall’esercito messicano, dove un diacono mi raccontò che ogni due settimane, di notte, superava a rischio della vita l’accerchiamento per andare a prendere l’eucaristia nella più vicina parrocchia (a 15 km!). Ancora più sconvolgente fu ascoltare il triste commento di Samuel Ruiz: “Capisci? Non solo rischia la vita, ma in questo modo l’eucaristia continua ad apparire loro come un bene d’importazione, che sono indegni di celebrare”. E poiché qualcuno in Vaticano iniziò a temere che il “vescovo degli indigeni” stesse prendendo la cosa “troppo sul serio” e gli balenasse l’idea di ordinare qualche sposato (dimostrando peraltro di non conoscerlo affatto!), pensarono di esautorarlo, mandandogli un vescovo “coadiutore”, che lo sollevasse, di fatto, da ogni funzione.
Questa volta fu troppo anche per lo Spirito Santo, che decise di prendersi una delle rivincite più clamorose nella storia della chiesa messicana: mons. Raúl Vera López s’intese perfettamente con lui e i due condivisero il tratto più difficile del cammino. Poco importa se, a sua volta, venne poi rimosso (mentre godeva diritto di successione!) e spedito dall’altra parte del Messico. In Chiapas la chiesa indigena è ormai una realtà e la risposta data da un semplice indigeno a un giornalista italiano, che gli chiedeva se non fosse preoccupato che un nuovo vescovo potesse vanificare anni di lavoro: “Se vuole camminare con noi è il benvenuto, altrimenti camminerà da solo!”, resta la prova più eloquente della maturità di un laicato che chiese molto più antiche ancora non possono vantare. Sulle montagne del sud est messicano ormai più nessuno potrà fermare il cammino degli indigeni cristiani e lo spirito del loro tatic marcia con loro.

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