Monique e gli altri

Diario di viaggio. Dipinto quotidiano di un popolo che vive in movimento.
E che richiede di essere riconosciuto in piena dignità.
Dino Campiotti (Direttore della Caritas della diocesi di Novara)

Viaggiando in autostop, come si usava un tempo, finisco nel profondo sud della Francia, in quella affascinante regione che è la Camargue. Stagni e paludi, canneti e brughiere si alternano, offrendo alla vista mandrie di tori neri e colonie di fenicotteri rosa.
Monique, una donnona forte e fisicamente ridondante, con due anelli di lucido rame spropositati alle orecchie (mettono allegria su quel volto scuro bruciato dal sole e dal mistral), mi accoglie nella sua “casa”. È una roulotte grande, suddivisa in quattro ambienti da tende variopinte, dove la gitana, che parla una strana lingua iberica, mi offre un caffè fortemente aromatizzato.
Sono piombato nel bel mezzo di una festa e in un accampamento pittoresco, coloratissimo e ricco di parlate diverse. Mi prende un’allegria schietta quasi una forma di esaltazione da contagio.
Non so se sia bouillabaisse, certamente è una zuppa di pesce quella che mangiamo verso sera, mentre sul piazzale sterrato, circondato dagli automezzi dei gitani, incominciano i canti e le danze del popolo delle steppe. Sono seduto sugli scalini metallici di accesso a quella strana casa che mi ospiterà per qualche giorno e non mi riesce difficile pensare a questa gente sempre in movimento... Monique si prepara per il ballo della festa e si unge il viso con olio di un colore rossastro e il suo volto brunito e senza rughe risplende alla luce delle torce.
È una notte straordinaria di allegria e di suoni e di luci, segnata da un cielo terso e puntato di stelle. È una di quelle notti in cui i sogni sembrano attendere a pochi passi, pronti per essere presi al volo. Anch’io mi ritrovo a ballare goffamente con Monique che, invece, a dispetto della sua mole, dimostra una agilità e una eleganza fuori dal comune. I canti testimoniano le diverse provenienze dei gruppi gitani, ma un filo rosso di nostalgia li accomuna in un destino senza tempo e senza confini. Prima che la festa si chiuda, mi ritrovo, stanco, sdraiato sulla branda assegnatami da madame Monique nella sua roulotte. E quando il sole è ormai alto sugli stagni della Camargue, al mio risveglio, mi rendo conto che l’accampamento sta smobilitando: perché e verso dove nessuno sa spiegarlo, se non attraverso un’unica risposta: “c’est la vie!”. Monique è più sapiente e certamente più puntuale: “Eh, bien! Sont les jeunes qui roulent! Sono i giovani che si muovono, sono loro che sognano altri orizzonti. E poi, perché pensi che viviamo nelle roulottes? La nostra è una vita con le ruote!”.
Anche oggi sarà vero che il desiderio di muoversi, di cambiare, di scoprire terre e ascoltare voci nuove è indissolubilmente legato ai mozzi delle ruote di quelle case viaggianti?
Dall’archivio dei ricordi mi è tornato alla memoria l’esperienza di gioventù, proprio in questi giorni in cui si è ritornato a parlare di nomadi e del cosiddetto “campo di sosta” alla periferia della nostra città. Ed è stato inevitabile stabilire delle connessioni e in qualche misura ripensare a questo strano popolo che rivendica usi e costumi e forse anche una libertà che non riusciamo a cogliere, se evitiamo di parlare di integrazione e di interazione.
Intanto mi pare importante premettere alcuni punti.
Sono d’accordo che alcuni “accampamenti” non siano degni di un mondo civile e pertanto hanno ragione anche gli abitanti dei dintorni di via Fermi, a Novara, a premere perché si trovi una soluzione a un disagio reale e percepito. E quindi bene ha fatto l’amministrazione comunale a pensare a una via d’uscita.
Sono d’accordo, altresì, che non si debbano considerare “nomadi” persone che oramai da oltre una ventina di anni vivono in un campo che ha visto nascere i loro figli; così come sono d’accordo che anche i nomadi che hanno la cittadinanza italiana debbano essere trattati nel rispetto dei loro diritti di cittadini.
Sono d’accordo che il concentramento di persone della stessa etnia che portano, come bagaglio appresso, usi e costumi che spesso sconfinano con le abitudini meno simpatiche e accettabili (l’arte di arrangiarsi, l’ostinazione nel conseguire risultati di sopravvivenza legati ad “arti e mestieri” oggi per lo più improduttivi, le tentazioni di microdelinquenza) non porti a nessuno sbocco di integrazione, al contrario spesso a posizioni parassitarie.
Sono d’accordo, infine, che rom e sinti non siano una minoranza solo da tollerare, ma anche da accogliere come un’altra forma di vivere civile con pari dignità perché essere minoranza non significa vivere a un gradino inferiore per cultura e per patrimonio di valori e perché diversità comporta varietà, bellezza e ricchezza per la società in cui si vive.
Pertanto, non sono del tutto d’accordo che si debbano “isolare” il più lontano possibile dalla città questi “nomadi” che nomadi non sono più: è l’esatto contrario di integrazione sociale e culturale.
Non sono d’accordo che siano isolati soprattutto in considerazione dei figli, giovani e ragazzi, che sono privati della possibilità di confrontarsi con altri giovani e ragazzi diversi per estrazione sociale e culturale: senza interazione (scambio, confronto, condivisione di esperienze) diventa problematica, forse impossibile, anche l’integrazione. Se il modello di riferimento è unico, come sarà possibile il cambiamento culturale e come si potrà vivere il senso di appartenenza alla realtà cittadina?
Si resterà segnati per sempre nella diversità senza dialogo.
Ovviamente non basta procedere per dichiarazione di principi; sento che è importante offrire qualche soluzione sebbene scomoda e talora anche impopolare.
È proprio impensabile che alcune di queste famiglie (mi pare siano soltanto dodici) possano fruire di una casa popolare all’interno dei diversi quartieri della città?
Non sarebbe più economica una tale soluzione, considerato che il costo finale di un nuovo campo sembra possa raggiungere i 500mila euro?
E comunque, al di là delle considerazioni di carattere economico, sembra il caso di sottolineare come la costruzione del nuovo “campo di sosta” non avvierà automaticamente processi di integrazione, né ridurrà il tasso di microcriminalità che si attribuisce ai “nomadi”.
Crediamo, invece, che, escludendo qualsiasi strumentalizzazione politica, sia importante entrare nello spirito della legge 482 sulle minoranze che invita al loro riconoscimento e alla loro valorizzazione. E in aggiunta, vogliamo evidenziare che questo comporta che, anche da parte di sinti e di rom, ci sia disponibilità e spirito di iniziativa, caratteristiche di soggetti attivi, alieni da atteggiamenti talora passivi e chiusi in forme inspiegabili di autodifesa.
Motivi di speranza non mancano, desideri di vivere in contesti diversi sono spesso espressi dai bambini del “campo” che a fatica accettano l’isolamento e la discriminazione. Che da loro si debba sperare che inizi il cambiamento e l’integrazione sociale?
Lacio drom,
amico “nomade”!

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