Le porte chiuse di Roma
Domenica 6 febbraio, a Roma, era una giornata piena di sole. In mattinata, le strade dirette al mare erano intasate di automobili; nel centro storico, turisti bighellonavano allegri in maglietta; nei parchi si allestivano in fretta picnic; i primi starnuti davano la conferma ufficiale: sembrava proprio essere il primo giorno di primavera.
Per Raul Mircea, Fernando, Patrizia e Sebastian, domenica 6 febbraio è stato l’ultimo giorno d’inverno. Anzi, l’ultimo giorno della loro vita, terminata nell’incendio del riparo di fortuna in cui abitavano, in un accampamento non autorizzato nei pressi della via Appia.
Non si è trattato, purtroppo, del primo incidente mortale di questo tipo che si è verificato in Italia, in un accampamento dove vivono comunità rom spesso intrappolate in un circolo vizioso di discriminazione e povertà.
Questo drammatico episodio ha fatto tornare di attualità le condizioni in cui vivono alcune migliaia di rom nella capitale e le politiche adottate dal Comune e dal Prefetto di Roma nei loro confronti.
Come è noto, e anche questa rivista se ne è a lungo occupata, il “piano nomadi” e la sua attuazione sono al centro dell’attenzione, delle critiche e delle raccomandazioni delle organizzazioni non governative, delle istituzioni europee oltre che, naturalmente, dei diretti interessati: i rom.
Quel progetto, il primo che sembrava volersi occupare a fondo della situazione dei rom a Roma, con la continuità propria di un “piano” dopo tanti interventi sporadici e inefficaci delle precedenti amministrazioni comunali, ha presentato sin da subito problemi di aderenza alle norme internazionali, in particolare per quanto riguarda la consultazione delle comunità affette da provvedimenti di sgombero, la notifica degli interventi e soprattutto la previsione di un alloggio alternativo adeguato.
Non c’è da meravigliarsene: il “Piano nomadi” discende dalla cosiddetta “Emergenza nomadi”, uno dei primi decreti del primo consiglio dei ministri del governo in carica, nel maggio 2008. E qui, vale ripeterlo, le parole rivelano le intenzioni: “emergenza”, come le alluvioni e i terremoti, per conferire poteri ai prefetti e per attuare provvedimenti con procedure d’urgenza, dando l’idea che ci sia qualcosa di urgente su cui intervenire; “nomadi”, come persone di passaggio, abituate a una vita vagante, cui offrire soluzioni provvisorie e precarie, quasi per venire incontro alle loro tradizioni ed esigenze. E dunque, spostamenti da campi ad altri campi, meglio se con preavviso e in modo armonioso, altrimenti senza preavviso e con metodi spicci.
Così ha mosso i primi passi, nel luglio 2009, un “piano nomadi” concepito senza coinvolgere i rom e con al centro non i diritti dei rom, bensì la sicurezza dei non-rom. Giova ricordare quanto il tema dei “nomadi”, associato pedissequamente a quello della criminalità e della sicurezza, fosse stato al centro delle campagne elettorali dei due candidati sindaci, Rutelli e Alemanno.
E in futuro?
Il “piano nomadi”, che avrebbe dovuto nel giro di poco tempo chiudere oltre un centinaio di campi tra tollerati e illegali e trasferire 6000 rom in 13 “villaggi attrezzati”, è a un punto fermo. Quello che avrebbe dovuto essere il suo fiore all’occhiello, la chiusura del campo Casilino 900 (che si continua a descrivere come uno dei più grandi, se non il più grande d’Europa), scordando che non vi sono altri esempi simili di strutture in Europa, tanto che l’Italia è stata definita “Campland” dal commissario europeo Hammarberg), si è rivelato, a detta dei più interessati (gli oltre 600 rom che vi risiedevano) un inganno.
Come ha documentato un’accurata ricerca dell’associazione 21 luglio, presentata il 15 febbraio di quest’anno, a un anno esatto dalla chiusura del Casilino 900, tra gli ex residenti il sentimento più diffuso è quello del rimpianto, seguito da un sentimento più duro: la rabbia.
La destinazione degli oltre 600 rom che vi risiedevano e che, in molti casi, vi erano nati, ha seguito la logica di quello che Amnesty International ha chiamato un “effetto centrifugo”: dispersi in cinque campi, tutti situati al di fuori del Grande Raccordo Anulare, lontani dalle scuole, dalle farmacie, dagli ospedali, dai negozi, dai servizi, dal lavoro… in altre parole, lontano dagli occhi e dunque lontano dai diritti.
Questo pare essere il destino comune dei 6000 rom interessati dal “piano nomadi”. La domanda su cosa succederà agli almeno altri 1000 rom presenti nella capitale (ma si ritiene siano ancora di più) è rimasta finora inevasa.
Nel settembre 2010, Amnesty International aveva scritto al sindaco di Roma Gianni Alemanno in riferimento agli annunci di un piano di sgombero, apparentemente aggiuntivo rispetto al “piano nomadi”, di 200 accampamenti abusivi a Roma, e alla dichiarata intenzione di voler tenere il massimo numero di rom a Roma, per l’appunto, entro le 6000 unità, attraverso gli sgomberi forzati. In quell’occasione l’organizzazione aveva ricordato che è vietato dal diritto internazionale utilizzare gli sgomberi come misura deterrente nei confronti della presenza di cittadini stranieri sul territorio.
Quella lettera è rimasta senza risposta.
C’è da sperare che la tragedia del 6 febbraio non sia il pretesto per un nuovo ricorso a sgomberi forzati, che esporrebbero le persone colpite a ulteriori abusi.
C’è da sperare, soprattutto, che 20 mesi di “piano nomadi” siano stati un tempo sufficiente per comprendere quanto sia indispensabile un’attenta protezione dei diritti umani delle migliaia di bambini, donne e uomini rom che vivono a Roma e in altre città d’Italia, anche attraverso politiche che assicurino il diritto a un alloggio adeguato e l’accessibilità dei servizi. Una politica di sgomberi forzati senza adeguate alternative abitative non può costituire una risposta alla povertà e all’emarginazione di tante persone rom, le quali vanno anzitutto rispettate nella loro dignità e nei loro diritti umani e coinvolte nelle scelte che le riguardano.