Il diritto di sapere
Esportare armi leggere o partecipare a progetti di costruzione di sofisticati bombardieri, fare affari con gli strumenti di morte, sono attività in cui i “pacifici” e imbelli italiani non sono inferiori a nessuno. Se ne è discusso il 19 febbraio nel corso del convegno su “Il diritto di sapere e di denunciare: il commercio e lo sviluppo degli armamenti in tempo di crisi”, svoltosi nei locali della parrocchia SS. Pietro e Paolo a Catania il 19 febbraio 2011.
Ho voluto approfondire, nel mio intervento, alcuni aspetti normativi e ho voluto proporre alcune iniziative in cui è possibile impegnarsi.
Due le “campagne” presentate: quella sulle modifiche alla legge n.185 del 9 luglio 1990 e quella per fermare la produzione dei cacciabombardieri F 35.
Il commercio delle armi
La legge 185, nata grazie alla mobilitazione della società civile per mettere sotto controllo il commercio italiano di armi, fa riferimento all’art.11 della Costituzione e quindi al ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
Nella legge vengono previste diverse forme di monitoraggio e controllo. Innanzi tutto i divieti. Non si possono commerciare armi con i paesi in guerra o sotto embargo, con i paesi che non rispettino i diritti umani violando le convenzioni internazionali, con i paesi che hanno una politica che contrasti con l’art.11, e con quelli che ricevono aiuti dall’Italia ma ne spendono una percentuale molto elevata, e non giustificata, per la difesa.
Ancora più innovativa la parte che riguarda i controlli. È previsto ad esempio che: il commercio delle armi venga autorizzato da un organismo interministeriale, che le imprese che vogliono avviare trattative per questo tipo di commercio siano iscritte in un apposito registro nazionale, che i loro rappresentanti legali siano cittadini italiani o residenti in Italia, o appartenenti a paesi legati all’Italia da trattati che prevedano la collaborazione giudiziaria, in modo da poter essere giudicati dall’Italia stessa per eventuali infrazioni.
Si stabilisce inoltre che il presidente del Consiglio presenti al Parlamento, entro il 31 marzo di ogni anno, una relazione sulle operazioni autorizzate e svolte entro il 31 dicembre dell’anno precedente.
L’autorizzazione per importare, esportare o far transitare armi viene concessa previa indicazione del tipo e quantità di materiale, dell’ammontare del contratto compresi eventuali compensi di intermediazione, dei paesi destinatari e così via. È prevista anche un’istruttoria per valutare la coerenza degli atti con le finalità dichiarate dell’operazione e in genere il rispetto delle norme contenute nella legge. Tutte le transazioni bancarie relative a questa materia devono essere notificate e autorizzate dal ministero del Tesoro e la relazione annuale al parlamento deve contenere un capitolo sull’attività degli istituti di credito operanti in questo campo sul territorio nazionale.
Il cambiamento del clima politico ha certamente reso più difficile l’applicazione di questa legge, ma sono intervenuti anche cambiamenti legati a fattori sovranazionali, soprattutto a direttive europee introdotte successivamente all’approvazione della legge.
Una prima modifica è stata introdotta nel 2003 con la legge n.148 che recepisce un accordo comunitario (Farnborough) teso a facilitare la “ristrutturazione e le attività dell’industria europea della difesa. È nata, infatti, con questa modifica la “licenza generale di progetto” che alleggerisce le procedure di autorizzazione e di controllo e permette che pezzi scambiati con partner europei possano poi essere esportati a paesi terzi.
Una nuova direttiva europea (2009/43/CE) impone una semplificazione delle modalità di trasferimento dei prodotti della difesa all’interno della UE. Il governo italiano la deve recepire, ma può farlo rispettando o annullando il sistema di autorizzazioni e controlli attualmente vigente. Piuttosto che accettare il dibattito parlamentare e le proposte della società civile, il governo pretende dal parlamento una delega che gli consentirebbe anche di smantellare la legge originaria. Per ottenere questa delega il governo ha “nascosto” il disegno di legge all’interno di un’altra legge, la Comunitaria 2010, con la quale vengono ratificate altre disposizioni europee.
È nata una mobilitazione, ad opera delle Rete Disarmo e della Tavola della Pace e la richiesta di sottoscrivere un appello scaricabile dal sito www.disarmo.org
Per adesso si è ottenuto un rinvio del voto, ma proprio per questo è necessario continuare la mobilitazione e la sensibilizzazione.
Sono state anche elaborate 10 proposte per migliorare la legge 185, tra cui ci piace segnalare quella di promuovere la conversione delle industrie militari in industrie civili e quella di estendere il controllo della legge anche alle armi di piccolo calibro. Di queste armi leggere, dette da sparo, l’Italia è il primo produttore mondiale. Nonostante non siano soggette all’applicazione della legge, si tratta di armi che costituiscono un pericolo per la sicurezza, soprattutto in quelle regioni del mondo dove sono capillarmente presenti, tanto da essere considerate armi di distruzione di massa.
Fermiamo gli F35
La seconda campagna di mobilitazione presentata nel corso della serata è stata quella contro i cacciabombardieri F35, L’Italia, infatti, fa parte di un progetto internazionale che prevede la costruzione di più di tremila aerei Joint Strike Fighter, 131 dei quali sarebbero acquistati dall’Italia per un importo complessivo di 15 miliardi di euro. Almeno per ora, perché i costi del programma stanno aumentando. Un singolo aereo è passato dal costo di 81 milioni di dollari a quello di 131 milioni.
Quanti interventi per la scuola, per la salute, per il territorio si potrebbero fare con 15 miliardi di euro? Molti. E tutti noi ne avremmo evidenti benefici, soprattutto in questo momento di crisi. Nel sito della Rete disarmo è possibile trovare un elenco delle opere di pubblica utilità che si potrebbero realizzare con questa cifra, dalla costruzione di asili nido alla ristrutturazione del centro storico dell’Aquila.
Sotto la spinta della crisi, gli altri governi, dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti alla Norvegia, hanno già deciso di tagliare le spese militari. Solo il governo italiano procede in una direzione diversa e cerca di contrabbandare la difesa degli interessi delle aziende produttrici (tra cui L’Alenia Aeronautica) come difesa dell’occupazione, con un’amplificazione propagandistica del numero di posti di lavoro che si creerebbe.
Il contratto non è stato firmato. Possiamo ancora fermare questa scelta dissennata e pretendere che questi soldi siano spesi nell’interesse della collettività.