PAROLA A RISCHIO

La Chiesa di fronte all'ingiustizia

La pace che cerchiamo da credenti ha una forte dimensione sociale e politica.
Ecco perché tutti dovremmo avere a cuore le esigenze della vita comune.
Roberto Mancini (Professore ordinario di Filosofia Teoretica presso l’Università di Macerata)

Il benessere di un paese, a partire dai suoi beni comuni e dalla qualità della sua vita pubblica, non sono valori trascurabili agli occhi della Chiesa. Quanti hanno scelto di partecipare alla comunità di Cristo e di testimoniare con la vita la fede evangelica non possono certo chiudersi nelle loro liturgie e teologie o in una spiritualità coltivata in spazi separati, al prezzo dell’indifferenza per la sorte di un’intera società. Un tempo nel linguaggio ecclesiale si tentava faticosamente di trovare un equilibro tra evangelizzazione e promozione umana. Ora abbiamo imparato che la promozione umana è il cuore stesso dell’evangelizzazione. E sappiamo che la pax Christi non ha nulla a che vedere con l’“apatia” degli antichi filosofi stoici, perché piuttosto ha a che fare con la fame e la sete di giustizia, con l’amore politico nonviolento, con la cura per tutte le esigenze della vita comune.

Custodi
Lo sviluppo della vera democrazia e della salvaguardia del creato costituisce una responsabilità che ricade anche sulla comunità cristiana. A meno che la Chiesa non voglia sperimentare di nuovo la resa a quell’unico suo peccato, cui sono riconducibili tutte le sue cadute: l’infedeltà. Infatti, solo una Chiesa infedele, se interpellata sulla sua posizione rispetto all’andamento della convivenza in Italia, potrebbe rispondere: “Sono forse io la custode di questa sorella?”.
Naturalmente si tratta di comprendere correttamente il senso di questa custodia e di questa responsabilità ineludibile. Non è l’investitura a costruire una teocrazia, o a collaborare con i governi per sostenerli. La Chiesa non ha alcun governo da appoggiare. Non si tratta nemmeno di ridurre il cattolicesimo a “religione civile”, né di rifondare il partito dei cattolici. La Chiesa non ha alcun partito con cui identificarsi. E tanto meno si tratta di legittimare quei politici che si autoproclamano paladini dei “valori cristiani”: l’evidenza attesta che i loro comportamenti sono tra i più lontani dal messaggio evangelico.
E allora? Che altro dovrebbe fare la comunità dei seguaci di Cristo in un paese come il nostro rispetto alla propria responsabilità per l’andamento della vita di tutti? Custodia e responsabilità comportano non la ricerca del potere o del privilegio, ma la promozione della giustizia dei diritti umani; non la reticenza sulle questioni spinose o la compiacenza verso i potenti, ma l’aperto prendere la parola per dire la verità smascherando l’ingiustizia. Per dire che la furbizia, la prepotenza, l’avidità, la concentrazione del potere, la manipolazione delle coscienze, l’immoralità e l’illegalità sono espressioni del male. E questa parola, illuminante e corale, deve essere detta nel tempo opportuno e con la chiarezza evangelica: “sia il vostro parlare sì, sì; no, no” (Mt 5, 37).

Di fronte al referendum
Proprio ora è il momento di levare la voce in difesa della libertà dei cittadini italiani e del metodo democratico di prendere le decisioni che riguardano tutti. In questi giorni dovremmo essere chiamati a partecipare, attraverso lo strumento costituzionale del referendum (la rivista potrebbe giungere a votazione conclusa, ndr.), a scelte fondamentali per il nostro paese. Nodi come quelli legati all’uso dell’energia nucleare, alla proprietà dell’acqua e all’eguaglianza di tutti, compresi i governanti e i politici, dinanzi alla legge non sono evidentemente temi settoriali. Sono invece questioni cruciali per la qualità della convivenza, per stabilire se essa si fonda sulla prepotenza o sulla giustizia. Dico che “dovremmo” essere chiamati a decidere, perché le tattiche di sabotaggio dei referendum messe in campo dal governo hanno forse precluso la possibilità di votare: lo spostamento della data del voto referendario il più possibile vicino all’estate, per far mancare il quorum necessario, e due decreti-legge ad hoc, rispettivamente, per l’acqua e per l’energia nucleare hanno questo scopo dichiarato. Sprezzante è la giustificazione addotta per scongiurare lo svolgimento del referendum sul ritorno all’energia nucleare. Nella facile previsione del fatto che esso sarebbe stato un referendum contro il nucleare, soprattutto dopo il disastro di Fukushima, si è detto che è meglio non votare perché altrimenti avremmo un “voto emotivo”. Come se il tuffo nella trappola delle centrali nucleari fosse frutto della razionalità, mentre il rifiuto di accollarsi i rischi e gli immani problemi legati alla gestione di queste centrali derivasse invece dall’irrazionale paura di gente facilmente suggestionabile. Ma dinanzi alla menzogna è di gran lunga preferibile l’emozione.
Essa può scuotere la ragione affinché si risvegli. L’emozione della paura dinanzi a ciò che è distruttivo, l’emozione dell’indignazione, l’emozione che spinge a partecipare responsabilmente alla vita democratica in modo che si giunga a decisioni sagge e giuste: queste sono tutte emozioni buone e oneste. Emozioni che, dispiegate in un sentimento condiviso che alimenti un approccio veramente razionale, possono segnare l’inizio di una politica nuova. Invece, al fondo dei progetti sul ritorno all’energia nucleare in Italia o sulla privatizzazione dell’acqua, così come alla radice dell’interesse a sancire il “legittimo impedimento” dei governanti tendente a sottrarli al giudizio della legge, c’è una stessa logica. È la logica barbarica del profitto a tutti i costi per chi pretende per sé la libertà da ogni vincolo etico o legale. La scelta di rilanciare il nucleare in Italia è completamente sbagliata. Sul piano economico, tecnologico, sanitario ed ecologico. La scelta di privatizzare l’accesso all’acqua potabile è, a sua volta, talmente iniqua da risultare anzitutto assurda. La stessa palese iniquità si ritrova del resto nella volontà di garantire l’immunità a tutti i costi per chi governa.
In una situazione così pericolosa alla Chiesa, che non deve avere interessi politici e che nel contempo non può non assumersi una responsabilità verso la qualità e le conseguenze della politica, spetta di dire chiaramente che tutto questo è inaccettabile. Non le spetta di indicare le soluzioni politiche, legislative e tecniche dei problemi, ma non può esimersi dal denunciare quelle logiche e quei comportamenti che impediscono ogni autentica soluzione e umiliano la dignità del popolo. Giovanni XXIII, nella Pacem in terris (al n. 19) vedeva nel risveglio democratico dei popoli della terra uno dei segni dei tempi tipici del percorso che porta a comprendere che cosa siano la verità, la giustizia, l’amore, la libertà, la relazione con Dio. E i segni dei tempi – segni di salvezza nascente nel seno della storia – devono essere illuminati, non occultati, dalla voce e dall’azione della Chiesa.

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