Tra passato e futuro
In Occidente si tende a dare una lettura semplificata della politica e della religione nell’Islam e in particolare si tende a negare che in esso vi possa essere una visione razionale, in quanto tutto sembrerebbe spiegato dalla volontà e onnipotenza di Dio, mentre scarsi sarebbero i contenuti speculativi e filosofici. In realtà, fin dai primi tempi della loro espansione, gli arabi sono in possesso di un proprio sapere fortemente caratterizzato, seppure in divenire, sia nelle discipline scientifiche che in quelle giuridiche, che si arricchisce nell’incontro con le altre civiltà, e che, coerentemente con l’impostazione ideologica impressa dal profeta Muhammad alla sua comunità (ummah), dà molta importanza ai valori dell’etica e del governo della città e degli uomini. La parola divina compenetra, quindi, profondamente la vita sociale e indirizza anche il diritto, ma è questo, non la teologia, la scienza tipicamente islamica, di cui la politica è l’applicazione sociale. Tale concetto sarà, poi, determinante nell’evoluzione storica successiva e sarà presente nei movimenti di modernizzazione ed emancipazione, fino ai giorni nostri. Si è ritenuto utile fare questa premessa per chiarire un pregiudizio che tende a presentare la civiltà islamica come originariamente caratterizzata dall’irrazionale e dalla pervasività della religione.
Un po’ di storia
L’impero arabo-islamico ha un’eccezionale fioritura fino al secolo XI, quando iniziano le prime spinte centrifughe, mentre la definitiva disgregazione è provocata dall’invasione mongola del XIII secolo. Ma è sotto l’Impero Ottomano che si accelera l’involuzione e la crisi dell’Islam classico. Tra le cause, la scarsa propensione degli Ottomani alla modernizzazione e il prevalente interesse per l’Europa, che penalizza lo sviluppo delle popolazioni arabe, la cui civiltà si andò sempre più eclissando. Il declino colpì lo stesso Islam, la cui classe dirigente religiosa non seppe rinnovarsi, facendo perdere al pensiero musulmano buona parte delle sue potenzialità creatrici e progressiste.
Ma fu soprattutto lo spostamento delle vie commerciali dal Mediterraneo all’Atlantico e ai mari del nord, in seguito alla “scoperta” dell’America e alla nascita del sistema industriale, che, marginalizzando sempre di più le rotte del Mediterraneo, portò a una drastica inversione dei rapporti con l’Europa, la cui presenza assunse sempre più le caratteristiche della dominazione coloniale.
La penetrazione coloniale, inizialmente economica e finalizzata a impadronirsi delle materie prime e a commercializzare i propri prodotti, indebolì le economie locali fino a distruggerle.
Progressivamente l’intera regione, dalla Turchia all’Atlantico, vide marginalizzate e/o assoggettate le proprie economie alle potenze europee, in particolare Francia e Inghilterra, seppure con diverse modalità. L’intervento politico e/o militare non sarà che l’atto conclusivo. Il colpo finale arriva agli inizi del XX secolo con la scoperta del petrolio, che, oltre ad allargare gli interessi coloniali alla regione del Golfo Persico, determina nelle potenze coloniali un atteggiamento di aperta ostilità e boicottaggio di ogni iniziativa che possa portare all’emergere di economie autonome.
Con la fine della 1° guerra mondiale e la sconfitta dell’Impero Ottomano, si ha l’insediamento definitivo delle potenze occidentali vincitrici e la suddivisone dell’ex impero. Lo sconvolgimento provocato dall’impatto con l’Occidente, provocò una grave crisi di identità dei popoli arabi, che tuttavia non rinunciarono a organizzare diversi tentativi di resistenza e di rinascita sia sul piano economico, che culturale e politico, ma sufficienti a reggere il confronto con un’Europa sempre più aggressiva ed efficiente.
Questo è il substrato e il contesto in cui collocare i movimenti nazionalisti per l’indipendenza, a partire dalla prima metà del secolo scorso. È bene sottolineare che l’aspirazione a una propria identità nazionale si rifà all’Islam, intesa come matrice comune di civiltà per chiunque viva nell’ecumene islamica, a prescindere dalla religione che professa e dalla appartenenza etnico-linguistica, mentre all’interno dei diversi programmi, è sempre presente l’aspirazione alla futura “Nazione Araba” da raggiungere al termine dei singoli percorsi di indipendenza. Una politica regionale coerente e condivisa sarà tuttavia impedita oltre che dagli interessi occidentali, anche dalle aspirazioni egemoniche di ciascuno.
Altro aspetto che caratterizza l’affermazione dei partiti nazionalisti è l’adozione dei modelli organizzativi e di democrazia così come si vanno imponendo in Europa, successivamente alla rivoluzione francese. Tali partiti hanno, tuttavia, una tendenza elitaria, per cui, quando arrivano al potere, privilegiano la tecnica del colpo di stato, piuttosto che le sollevazioni popolari, che invece stanno caratterizzando le rivolte odierne.
L’indipendenza ottenuta, pur promuovendo importanti azioni riformatrici sul piano politico e sociale, non regge nei fatti all’influenza dell’Occidente i cui interessi strategici e di approvvigionamento energetico richiedono, per realizzarsi, un sostanziale assoggettamento economico dei paesi arabi, pur nella conservazione di un’indipendenza formale. Ciò porta alla progressiva liberalizzazione delle economie. I regimi, per mantenersi al potere, non esitano a utilizzare contro i movimenti di ispirazione socialista e progressista, ideo-logie religiose conservatrici, come il salafismo e il wahabismo saudita, per scaricarli e reprimerli quando non più necessari. Il risultato è il consolidarsi dei regimi, la cui polizia onnipotente e pervasiva, esercita una repressione feroce contro ogni critica e impedisce l’organizzazione di ogni opposizione.
Una cappa di piombo cala sulle società arabe, tollerata dall’Occidente, nonostante la contraddizione palese con i tanto declamati valori di democrazia, libertà e progresso, poiché funzionale alla stabilità in un’area strategica per i propri interessi economici e geopolitici.
La cappa viene squarciata quando non è più tollerabile. Da una parte: società degradate, disoccupazione, emigrazione e fuga di cervelli, analfabetismo, impoverimento delle campagne e delle periferie urbane, caduta del potere d’acquisto, eliminazione di ogni copertura sociale, corruzione generalizzata, data la scarsità di investimenti nell’agricoltura, nell’industria, nell’informatica ed elettronica, nella ricerca e nei beni comuni. Dall’altra e per pochi: crescita sproporzionata dei patrimoni delle oligarchie, che investono in attività a debole valore aggiunto ma ad altissimo tasso di profitto e senza rischio finanziario, investimenti miliardari della rendita petrolifera in beni immobiliari e fondiari di lusso, nel turismo, nella grande distribuzione commerciale, nelle banche, nelle telecomunicazioni. Nessuna attenzione anzi disprezzo per i propri popoli. Questo è il substrato che ha provocato la demoralizzazione e il disgusto delle classi medie e della parte più istruita e ha alimentato il coraggio e la forza delle rivolte e dei movimenti, non solo per il lavoro, ma per la libertà e la dignità.
Sollevazioni popolari
Il problema ora è: come potranno i movimenti in corso resistere ai tentativi di recupero e controrivoluzione, alla repressione (come è già successo in Bahrein e altrove), alle interferenze esterne, violente come in Libia, o che si esprimono attraverso la volontà di accompagnare le nascenti riforme?
Il rischio di arretramento e di cedere alle interferenze è enorme, dal momento che le economie lasciate in eredità dai poteri abbattuti sono deboli e dipendenti dall’esterno per i prodotti alimentari e di prima necessità, e poco produttive perché basate prevalentemente sulla rendita. Tali economie vanno, pertanto, sradicate, e la liquidità, che esiste, va investita in economie produttive, per sfruttare le risorse esistenti, sia naturali che umane, sollecitare il rientro dei talenti espatriati, creare occupazione. La riconversione è urgente per evitare che, la mancata soddisfazione delle richieste salariali e occupazionali, porti alla contrapposizione tra le classi medie urbane e gli strati popolari e poveri rurali e delle periferie urbane, la cui unità è stata quella che ha portato al successo dei movimenti di protesta e a nuove rivolte, per fronteggiare le quali si alleino gruppi economici e classi medie, col supporto di interessi esterni, disperdendo tutte le conquiste sinora raggiunte. Così come vanno sostituiti gli apparati dello Stato e la burocrazia che hanno servito i regimi precedenti.
Vi è, infine, il pericolo, agitato dalle classi al potere e anche dall’esterno, che possano scoppiare scontri tra diverse regioni ed etnie e formazioni religiose, tipo tra sunniti e sciiti, tra musulmani e cristiani, e con altre minoranze, che possono essere rinfocolate ad arte oppure semplicemente dare sfogo a quello che è un malessere economico e sociale.
La rapida caduta dei regimi in Tunisia ed Egitto, che Stati Uniti ed Europa avrebbero accompagnato, ha spinto le altre dittature alla repressione brutale, mentre i campioni della libertà occidentale si astenevano dall’ intervenire, tranne che in Libia, con il chiaro intento di togliere di mezzo il regime, impadronirsi del controllo delle risorse petrolifere e dare la scalata ai fondi sovrani libici. L’ultima a muoversi è stata la Siria, dove sulle proteste alimentate da domande analoghe a quelle di altri paesi e finora rimaste senza risposta, si sono sovrapposti interventi esterni a cui non sono sicuramente estranei Stati Uniti per propria stessa ammissione, Israele e Arabia Saudita, tutti paesi per i quali un cambiamento, guidato del regime siriano potrebbe portare all’indebolimento dell’Iran e dei movimenti Hezbollah e Hamas. Resta da vedere se sia davvero auspicabile la caduta di un regime, che, bene o male, negli anni ha garantito nell’area una certa stabilità.
È difficile fare un bilancio e tanto meno trarre delle conclusioni su quanto sta accadendo, per i tanti interrogativi sul tappeto e perché non è facile assumere un approccio che permetta ai popoli che si sono rimessi in cammino, di riprendere in mano il proprio destino.
Potranno le rivolte trasformarsi in vere rivoluzioni nonostante gli enormi interessi su cui andranno inevitabilmente a incidere? Fino a che punto e perché gli Stati Uniti mantengono una così stretta alleanza con Israele, che continua ad alzare il livello dello scontro? C’è il rischio di un caos globale non più controllabile? Quanto la crisi economica che imperversa potrà spingere l’Occidente ad avventure ancora più estreme e a politiche neocolonialiste?
E ancora, spesso si tende a dimenticare che i principi di cittadinanza, libertà e uguaglianza sono stati divulgati nei paesi arabi fin dall’Ottocento, che da 1500 anni vi è stata una produzione giuridica propria, che sia in Egitto che in Tunisia, vi è stata una animata vita parlamentare prima dell’avvento delle dittature e così in Siria e Iraq, prima dell’avvento dei partiti baatisti. È raccomandabile, quindi, che questi popoli facciano il loro cammino senza che siamo noi a indicare la strada e senza agitare pericoli islamisti laddove questi non ci sono, e comunque non spetta a noi dare indicazioni, tanto meno a chi tali pericoli in Occidente ha alimentato e fomentato strumentalmente.
Sarà bene, pertanto, non demonizzare neppure i movimenti dei Fratelli Musulmani, o formazioni ad essi vicine (da non confondere con i movimenti salafiti e wahabiti), che sono notoriamente ben organizzate e inserite nella società.
D’altronde, le rivolte che hanno animato le piazze arabe hanno visto la mobilitazione straordinaria di una molteplicità di soggetti, liberi cittadini e forze di ogni orientamento, che fanno sperare in un cambiamento positivo, anche se la transizione sarà necessariamente lunga.