La primavera araba

A colloquio con Paola Caridi, per attraversare la rivoluzione panaraba: una trasformazione che segnerà la storia, nonostante i rischi di possibili involuzioni. E di interferenze di guerra. Che non aiutano a costruire alcuna democrazia nuova.
Intervista a cura di Francesco Martone

Paola, tu sei da anni un’attenta osservatrice del mondo arabo, prima dal Cairo ora da Gerusalemme. E hai avuto la possibilità di cogliere la portata degli eventi che si stavano delineando ormai da tempo e che oggi assumono i caratteri di una trasformazione epocale. Si può parlare secondo te di una rivoluzione panaraba?
Che sia in atto la rivoluzione panaraba è ormai un dato di fatto. Comunque, se la rivoluzione è in corso e ha quella carica eroica indubitabile, le transizioni sono altra cosa. E sono molto più pericolose. Perché i regimi – veri e propri sistemi complessi costruiti e rodati in decenni di gestione del potere – non crollano in un giorno. Tentano di resistere e di continuare a vivere. Ancora una volta è l’Egitto – come sempre succede nel mondo arabo – a essere laboratorio e modello. Anche in questo 2011. Eroica e bellissima la rivoluzione del 25 gennaio. Duri i colpi di coda del regime, che ha tentato di resistere al suo crollo. La situazione al Cairo (anche quella della sicurezza) è peggiorata appena è stato toccato uno dei pilastri del regime Mubarak, la sicurezza dello Stato. La cronologia degli eventi ha subito fornito la prima spiegazione di quello che stava succedendo. Era stato troppo duro da digerire, per un apparato che conta – a seconda dei calcoli – dai centomila agli oltre trecentomila membri, tra informatori, picchiatori e veri e propri funzionari, l’assalto alla centrale di Nasr City, al Cairo, e la scoperta di celle nei sotterranei in cui erano ancora detenuti (nonostante vi fosse stata la rivoluzione) decine di attivisti. E allora, bisognava far vedere che la sicurezza individuale, per ogni singolo cittadino egiziano, comincia a essere un problema. Le pietre a Tahrir, e soprattutto gli scontri tra musulmani e copti al Moqattam, area difficile del Cairo. Al Cairo c’è chi dice (e sono molti) che a rinfocolare gli animi fossero stati pezzi del regime che non vogliono abbandonare il potere, e magari pagare per le violazioni compiute negli scorsi anni. Il nodo, dunque, è anche politico.

L’Egitto è, assieme alla Tunisia, il paese nel quale la cosiddetta “Primavera Araba” ha raggiunto il suo apice. In Egitto come in Tunisia le rivolte di popolo hanno portato alla caduta di regimi autoritari, come quello di Ben Ali e Mubarak. Per comprenderne la portata, questi eventi vanno letti non come estemporanei, ma come il punto di arrivo di processi che ormai da anni attraversavano le società civili di quei paesi. Quegli “Arabi Invisibili”, insomma, che danno il nome a un tuo bel libro e al blog dal quale ci aggiorni quotidianamente sugli eventi nel mondo arabo, soprattutto in Egitto ma anche altrove. In Egitto, però, i rischi di un’involuzione sono evidenti, considerato anche il ruolo storico dell’esercito e quello politico dei fratelli musulmani. Qual è la tua opinione al riguardo?
Ero sempre stata ottimista. Anche quando al Cairo, alla fine di marzo, ascoltavo i timori degli egiziani normali, quelli del popolo. L’economia che non gira, i soldi che non ci sono, e la controrivoluzione alle porte. È vero, sulla scena dell’Egitto post-Tahrir c’è anche la cosiddetta controrivoluzione. O meglio, il tentativo del regime di sopravvivere a se stesso, in maniera gattopardesca. E come potrebbe essere altrimenti? Trent’anni di vita, corruzione, tangenti, repressione non si sciolgono come neve al sole. Bisogna disaggregare una struttura pesante, di cemento, di quelle che – crollando – possono peraltro fare molti danni. Eppure, nonostante tutti questi timori, una rivoluzione è una rivoluzione. E quella egiziana lo è a tutti gli effetti, anche se la transizione viene pilotata da un pezzo importante del regime, come le forze armate. Transizione difficile, anche molto contraddittoria, ma pur sempre figlia della rivoluzione. Di certo c’è una cosa, Indietro non si torna, in Egitto. E il 2011 si può aggiungere alla lista delle rivoluzioni: non solo e non tanto il 1952, ma anche e forse soprattutto il 1919.

Transizione difficile, appunto, nella quale l’islam politico potrebbe svolgere un ruolo determinante. Non certo al punto di pilotare la spinta innovatrice delle Primavere Arabe verso piattaforme di tipo “teocratico” o integralista, ma senz’altro in grado di esercitare una forte influenza sulle scelte politiche di fondo e sui programmi delle prossime classi dirigenti. Fermo restando che queste rivolte appaiono saldamente ancorate a una visione “laica” del ruolo dell’islam nella vita politica, culturale e sociale del mondo arabo, resta il fatto che formazioni politiche come quella dei Fratelli Musulmani saranno determinanti nel futuro politico dell’Egitto. Possiamo considerare i fratelli come un soggetto coeso o anche lì esistono differenziazioni interne?
La ruggine che per anni ha diviso l’ala conservatrice e l’ala riformatrice della fratellanza musulmana è divenuta fatto compiuto. La separazione è avvenuta ora, perché non c’è più il regime, e, dunque, il nemico che, almeno formalmente, unisce tutti attorno a un obiettivo comune. Quando, con la libertà, è giunto anche il momento di formalizzare la rappresentanza politica dell’Ikhwan, movimento socio-religioso, ecco che le diverse anime della fratellanza sono venute in superficie. Per anni era stato Abul Futouh il candidato d’eccellenza alla “guida suprema”, ma la sua successione era stata messa da canto con una sorta di strano blitz dal quale l’anima conservatrice era emersa vincente. Abul Futouh era appena uscito dall’ospedale in cui aveva trascorso in pratica tutti i sei mesi di detenzione imposti dal regime di Hosni Mubarak (da giugno a novembre 2010), guardato a vista da una decina di uomini della sicurezza dello Stato, appena al di là della porta della camera di ospedale. Appena uscito, il suo ruolo all’interno dell’Ikhwan era apparso sempre più isolato. Eppure, è proprio Abul Futouh l’unico leader di mezza età che è riuscito negli anni a mantenere legami strettissimi con i giovani islamisti, quei giovani che, assieme ai loro amici e sodali della sinistra e dell’area laica hanno fatto la rivoluzione a piazza Tahrir. Abul Futouh aveva considerato importante non solo “ascoltarli, ma anche interagire”. Lo ha fatto sin dall’inizio, scontrandosi da subito con una dirigenza, quella dell’Ikhwan, che ha prima sottostimato la protesta iniziata il 25 gennaio, per poi cercare un guadagno politico che non ha mai coinvolto del tutto le richieste che venivano dal movimento di Tahrir. Abul Futouh continua nel suo braccio di ferro con il movimento che, ufficialmente, sta dando vita a un altro partito politico, Libertà e Giustizia, espressione dell’Ikhwan, e la decisione finale del leader riformista avrà sicuramente un effetto all’interno dei giovani islamisti, che stanno causando un’emorragia di consensi dalla casa madre.
L’eventuale strappo, dunque, arriverebbe alla fine di una lunga storia. I fratelli musulmani si potrebbero presentare divisi alle elezioni. La vera pressione pericolosa è quella dei salafiti, cresciuti all’ombra del regime. Ma questo è un altro capitolo, ancora più complesso, che bisognerà analizzare con attenzione.

Gli eventi nel mondo arabo hanno indubbiamente monopolizzato l’interesse e l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica internazionale, distogliendone lo sguardo dalla tragedia che vive da decenni il popolo palestinese. Tuttavia in Palestina e riguardo alla Palestina, da qualche mese, si registrano sviluppi importanti.
Cresce il numero di paesi che riconoscono implicitamente o esplicitamente lo stato di Palestina, si avvicina settembre, mese in cui con molta probabilità, l’Assemblea Generale dell’ONU adotterà una risoluzione al riguardo, cresce nel contempo la paura di Israele, alimentata anche dal venir meno di un importante fattor di stabilità quale il regime di Hosni Mubarak.
Ora, l’accordo tra Hamas e Fatah, nei fatti “sponsorizzato” dall’Egitto, rafforza la coesione all’interno della Palestina in vista di sviluppi futuri. Secondo te la Primavera Araba ha avuto un effetto catalizzatore anche in Palestina?
L’accordo siglato al Cairo tra Fatah e Hamas è un accordo storico. Governo di transizione, intesa sulla sicurezza e sui prigionieri politici, e tre elezioni da tenere entro un anno. Per il nuovo presidente dell’ANP, per il consiglio legislativo di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est, e anche per il parlamento dell’OLP, che rappresenta tutti i palestinesi, rifugiati compresi. Hamas e Fatah hanno così chiuso con un’intesa su tutti i punti all’ordine del giorno uno scontro che durava da cinque anni, da quando Hamas aveva vinto le elezioni parlamentari palestinesi del 2006, e che si era poi cristallizzato quando Hamas aveva compiuto il colpo di stato a Gaza, nel giugno del 2007, assumendo il totale controllo della Striscia.
A segnare la svolta, anche per i palestinesi, sono state le rivoluzioni in corso nei pae-si arabi. Il regime di Hosni Mubarak, patron storico di Fatah, aveva insabbiato il processo di riconciliazione, ed è invece stato il nuovo ministro degli Esteri egiziano, Nabil el Arabi, a spingere Hamas e Fatah a mettere la parola fine a cinque anni di divisioni, di violenza, e di sangue.
La leadership di Hamas a Damasco, poi, ha mitigato le sue posizioni proprio in contemporanea con la rivolta in corso in Siria contro il regime di Bashar el Assad. E a dimostrazione che le rivoluzioni hanno inciso, non c’è solo la frase pronunciata da Moussa Abu Marzouq al Cairo (“le rivoluzioni arabe hanno avuto un ruolo”), ma anche la decisione di inserire, tra le elezioni in programma entro un anno, il rinnovo del parlamento dell’OLP, il consiglio nazionale palestinese, dopo la riforma dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e il conseguente ingresso di Hamas. Il rinnovo del PNC era una delle principali richieste dei ragazzi di Ramallah e di Gaza, perché la questione palestinese, secondo loro, non si limita alla questione dell’ANP, ma rimette in gioco tutto, dal ruolo dei rifugiati a quello dei palestinesi del 1948, così come vengono chiamati i palestinesi col passaporto israeliano.
Se l’accordo del Cairo è stato un accordo a sorpresa, così non è stato per le trattative, che vanno avanti da settimane. Non le vecchie trattative, insabbiate costantemente da Omar Suleiman, come confermano anche i documenti di Wikileaks e dei Palestine Papers. Ma le nuove trattative, che hanno visto un andirivieni tra i Territori Palestinesi e il nuovo Cairo uscito dalla rivoluzione del 25 gennaio. La vera cesura è stata la presenza di Nabil el Arabi alla testa del ministero degli Esteri egiziano, e dunque una diversa prospettiva regionale: l’Egitto, infatti, per la prima volta, ha coinvolto la Turchia nel dossier della riconciliazione palestinese, dopo aver escluso volutamente e pervicacemente Ankara per anni, nonostante le richieste del governo Erdogan. Hamas, Fatah, il gruppo di personalità palestinesi indipendenti che si sono recati a più riprese al Cairo hanno segnalato sin dall’inizio che l’atmosfera era cambiata. Non solo in Egitto. Ma anche tra i palestinesi. Dopo quello che è successo al Cairo e sta succedendo almeno in metà della regione, la leadership palestinese sa bene quanto una protesta della società civile, del popolo possa incidere sulle scelte politiche…
La riconciliazione palestinese, dunque, è filiazione diretta delle rivoluzioni arabe. Ulteriore conferma che tutti i nostri parametri interpretativi stanno saltando. E prima ce ne accorgiamo, meglio sarà.

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