Venti di cambiamento
Quando nel 2009 il Consiglio internazionale del Forum Sociale Mondiale si riunì a Rabat, in Marocco, a un certo punto della riunione qualcuno dei latinoamericani chiese se era possibile appendere al muro una carta geografica. Si parlava di Maghreb, Mashrek, di RASD e di Amazigh, ed erano in tanti che non riuscivano a trovare nella loro testa neppure i riferimenti fisici.
Quello fu uno dei momenti più importanti nella storia del FSM, dove fu possibile toccare con mano il successo di una rete che, per l’appunto, intende costruire connessioni fra parti diverse del mondo, e allargare la mente alle organizzazioni e alle persone che vi partecipano.
Fra chi conosceva a memoria i nomi dei popoli indigeni dell’Amazzonia perché quello è il suo mondo, e chi sapeva tutte le declinazioni di popoli e confini nel mondo arabo perché lì c’è la sua storia, la riunione di Rabat aveva creato un ponte.
Non solo di conoscenza, ma anche di solidarietà: finì con tutti che piangevano dopo che gli attivisti traduttori avevano risposto ai ringraziamenti raccontando in due parole la propria storia drammatica – di incarcerati, torturati, esiliati durante gli anni neri del reame marocchino. Erano in molti, in quella riunione di duecento persone, ad avere avuto lo stesso passato in altre parti del mondo.
Arrivare a Rabat non era stato semplice: quando la decisione di andare lì era stata presa a Belem il COSATU, grande e autorevolissimo sindacato sudafricano, aveva promosso il boicottaggio della riunione in nome dell’occupazione marocchina del Sahara occidentale.
Si era aperta una discussione intensa e importante. Alla fine, prevalse l’idea che anche noi italiani, sulla base di tanto lavoro fatto nelle aree difficili dal Medio Oriente ai Balcani, avevamo sostenuto: proprio laddove un paese opprime un altro popolo, è importante dare la massima solidarietà a quanti nel paese occupante si battono per la democrazia, perché è la democrazia che apre le porte alla pace possibile.
Da quella riunione a Rabat, l’identità del Forum Sociale Mondiale ha fatto un salto di qualità. Dieci anni fa, nella prima edizione del Forum a Porto Alegre, il Forum rispecchiava l’identità di chi lo aveva inventato. Era mondiale nel nome, ma nei fatti era un incontro di società civile democratica dell’America Latina e dell’Europa.
Erano genti divise dall’Atlantico ma legate dalla genetica, passate attraverso i drammi della conquista, della colonizzazione ma anche da una cultura comune della democrazia nata con la rivoluzione francese, e proseguita poi con le lotte per le indipendenze nazionali, con le resistenze alle dittature e le democrazie liberali. Con tutti gli attori appartenenti alle stesse famiglie progressiste novecentesche: il socialismo, il comunismo nelle loro tante diverse versioni, il cristianesimo democratico, la nuova sinistra, l’ecologismo, il femminismo, i nuovi movimenti. Gli indigeni e i neri latinoamericani, portatori di culture altre, infatti si sono conquistati il loro spazio nel Forum solo qualche anno dopo.
Con il tempo, nel FSM arrivarono gli indiani, un bel pezzo d’Asia, e poi gli africani e gli statunitensi, gli australiani e la gente degli atolli della Polinesia, un po’ di est europeo e quei pochi frammenti di società civile democratica della Russia post-comunista, dimenticata da tutti, come per vendetta postuma contro la superpotenza traditrice dei principi socialisti.
Ma come potevamo pensarci globali senza quel pezzo di mondo cruciale che malamente definiamo mondo arabo – molto malamente visto che dentro ci vivono un sacco di popoli che arabi non sono affatto? Proprio quel mondo è stato in prima linea nel decennio Bush, dalle Twin Towers in poi, con le guerre e i terrorismi, la costruzione dello scontro di civiltà, le occupazioni e i regimi. Come potevamo pensare “un altro mondo possibile” senza avere dentro cultura, visioni e linguaggi di un pezzo di mondo così importante?
Il Forum Sociale sbarca in Africa
Era stato un pensiero ricorrente nei primi anni della storia del FSM per noi mediterranei, più vicini e più dentro a quella storia, e aveva portato noi italiani a inventare Medlink, una sorta di laboratorio-pensatoio comune fra altermondialisti della sponda sud e nord.
Ci hanno pensato i marocchini del Forum delle Alternative, a risolvere il problema. Approfittando degli spazi di libertà aperti dal nuovo re dopo anni di feroce repressione, usciti dalle galere o tornati dall’esilio, prima hanno creato il Forum Sociale del Marocco, poi quello del Maghreb. È stato un processo durato anni, che ha dovuto affrontare tante difficoltà: le tensioni nazionali create dai regimi, i conflitti, i problemi delle occupazioni e delle repressioni delle minoranze, la mancanza di soldi e di collegamenti.
Il primo Forum maghrebino si è tenuto nel 2008 ad El Jadida in Marocco, con la partecipazione di decine di migliaia di persone da tutta la regione, a rappresentare organizzazioni di società civile indipendente per i diritti umani, sociali, di donne, per i beni comuni, sindacati, associazioni culturali.
Da lì poi è iniziato il percorso verso il Forum Sociale Maghreb-Mashrek. Problemi raddoppiati, a cercare di mettere insieme il Nord Africa e il Medio Oriente, con le loro storie diverse e spesso assai distanti, e con grandi ostacoli dovuti ai divieti di riunione e alla repressione dei regimi in molti paesi, ma anche una sfida grande e cruciale.
Il primo Forum Sociale Maghreb-Mashrek ancora non è stato realizzato. Esiste un comitato di collegamento permanente che si riunisce regolarmente e che ha scelto di costruire una lunga serie di incontri tematici nei diversi paesi della regione, per riuscire a intercettare il massimo degli attori sociali.
Con questa situazione siamo arrivati a oggi. Tutti gli attori sociali organizzati che stanno cambiando la storia del loro paese sono dentro alla rete Forum Sociale Maghreb-Mashrek, che ai movimenti in tutto il mondo appare finalmente in tutta la sua importanza e centralità.
Non ci sono nel Forum i ragazzi, la gente del popolo, quella enorme massa di popolo senza nessuna cultura politica e senza nessuna storia di attivismo che in un attimo hanno perso la paura e sono scesi per strada sfidando fucili e cecchini. Loro non stanno da nessuna parte, e uno dei problemi comuni a tutte le strutture organizzate in Tunisia è proprio quello di come riuscire a offrire un’opportunità di partecipazione attiva a questi giovani, che hanno scoperto la politica, ma non sanno neppure dove trovarla.
La società civile di questi paesi ha vissuto decenni quasi in clandestinità, impedita nelle sue attività e nel suo sviluppo, è molto debole e fragile e ora si trova in un gioco assai più grande delle proprie possibilità: deve partecipare da un lato alla definizione del quadro istituzionale democratico e dall’altro a rafforzare la società civile indipendente, unica garanzia per il futuro – qualunque esso sia.
Nessuno si illude, da queste parti. L’orgoglio per ciò che si è fatto si accompagna sin dal primo giorno con la preoccupazione per ciò che potrà accadere. Regimi così pervasivi non si cancellano con un colpo di spugna, sono ovunque e a tutti i livelli della società. E nella porta aperta dalle rivoluzioni cercano di inserirsi le forze islamiste.
Cercano di lavorare con i giovani, perché alla speranza non si sostituisca la frustrazione e la disillusione. Lavorando con le donne, perché non tornino a casa e non si facciano togliere da nessuno neppure un briciolo di diritti. Si battono per il lavoro e i diritti sociali, perché è questo che chiede la gente e il lavoro non c’è. Si impegnano contro le repressioni ancora in corso, contro le guerre e le occupazioni. Hanno un’agenda di lavoro enorme, le organizzazioni di società civile del Forum Sociale Maghreb-Mashrek.
Quest’ultime hanno creato uno spazio aperto a chiunque voglia collocare la propria iniziativa di solidarietà e dove sviluppare insieme le campagne sui temi che abbiamo in comune: la revisione dei trattati in materia di migrazione e frontiere, quelli su commercio e libero scambio, il necessario (e inesistente finora da parte dei governi) alla società civile democratica della sponda sud.
Se vogliamo dare loro una mano, e dare così anche una chance anche al nostro futuro di mediterranei, occupiamo questo spazio con le nostre iniziative: è finalmente una sede Euromed basata a sud, serve anche a spazzare via il colonialismo e l’arroganza dalla nostra testa.