Focus sull'Algeria

A colloquio con l’attivista algerina per i diritti delle donne, Cherifa Bouatta. Cosa sta accadendo e quali equilibri sono in gioco? Chi sono i protagonisti delle rivolte e che ruolo giocano le forze politiche ed economiche europee?
Intervista a cura di F. M.

La incontro personalmente in occasione del convegno Mare Nostrum, organizzato da Sinistra Ecologia e Libertà, a Napoli a fine aprile. Cherifa è docente di Psicologia presso l’Università di Algeri, e dal 1980 membro dell’Associazione Difesa e Promozione dei diritti delle donne.

Cherifa, dalle rivolte in Tunisia a piazza Tahrir, fino alla Siria, allo Yemen, al Marocco, alla Libia, il mondo arabo è in fermento. Si chiede dignità, democrazia, libertà, dopo anni di regimi liberticidi sostenuti anche dalle potenze occidentali, con il pretesto della lotta all’integralismo islamico e della stabilità regionale. Qual è la situazione attuale nel tuo paese, l’Algeria?
In confronto a ciò che succede in Egitto e Tunisia, l’Algeria è in una situazione pre-rivoluzionaria.
In tutto il paese, e praticamente ogni giorno, ci sono rivolte di giovani e disoccupati che si sono organizzati e che chiedono un cambiamento sociale. Negli ultimi anni sono anche nati sindacati indipendenti che hanno organizzato scioperi. Ad esempio, il sindacato degli insegnanti che, per lungo tempo, ha portato avanti delle lotte molto importanti riuscendo a ottenere ciò che voleva.
Oggi c’è uno stato di “ebollizione” a livello nazionale, In parallelo a queste rivolte diffuse, c’è il ritorno di alcune personalità politiche che propongono una sorta di processo di transizione verso una nuova repubblica. Sono persone che hanno partecipato alla vita politica del paese qualche anno fa e che, per una ragione o per l’altra, hanno lasciato il potere e oggi ricompaiono con alcune proposte. Però, c’è anche la creazione di un coordinamento nazionale per il cambiamento e la democrazia che riunisce donne, società civile, giovani, disoccupati e partiti politici.
Questo movimento ha come obiettivo il cambiamento democratico e, come slogan principale, “système dégage” ovvero non vogliamo un cambiamento all’interno del sistema attuale, ma un nuovo sistema, una nuova repubblica.
In questo coordinamento, le rivendicazioni sono evidentemente politiche ma anche sociali: l’eguaglianza e la giustizia sociale. Le donne presenti nel coordinamento sono anche loro per il cambiamento democratico, senza dimenticare le loro rivendicazioni specifiche, ovvero l’eguaglianza di genere e l’ abolizione del codice della famiglia. Va ricordato che in Algeria esiste una giurisdizione speciale che legifera specificamente sulle relazioni tra uomini e donne e che si ispira alla Sharia. Le donne vogliono leggi civili non ispirate alla Sharia.
Questa è l’Algeria di oggi, nella quale i movimenti e le organizzazioni stanno lavorando a convergenze che permettano di moltiplicare la forza con l’ obiettivo comune di cambiare il regime. È vero che oggi il regime sta facendo ogni tentativo per restare al potere. Ad esempio, utilizzando le rendite da petrolio, per promettere posti di lavoro ai giovani disoccupati, ma in realtà si tratta solo di un piccolo salario per comprare la pace sociale, distribuendo denaro. Diverse categorie professionali hanno fatto proposte in questo senso, ma questo è solo un tentativo del potere, che non avrà impatto sulla popolazione. Le proposte di trasformazione politica che caratterizzano le dinamiche cui accennavo sono rivolte anche al settore economico. C’è la convinzione diffusa che le scelte economiche finora perseguite siano obsolete e hanno trascinato l’Algeria in una dipendenza assoluta dal petrolio. Oggi la vita e la sopravvivenza degli algerini dipendono dalle oscillazioni del prezzo del petrolio: se il prezzo cade è la catastrofe. Importiamo tutto, l’agricoltura va male, le industrie sono state distrutte, non c’è produzione. Quella attuale non è un’economia percorribile che possa rispondere ai bisogni della popolazione algerina. È un’economia precaria, in parte perché il prezzo del barile di petrolio non è stabile. E poi perché il petrolio non durerà in eterno.
Certi economisti ed esperti del settore dicono che le riserve di gas e petrolio dell’Algeria hanno una durata determinata. Pertanto il futuro è molto problematico per noi: cosa ci succederà se un giorno il petrolio crollerà o quando il petrolio finirà?

È la classica maledizione del petrolio, che gli analisti chiamano “oil curse”, la monocultura petroliera con corruzione e profitti in mano a poche élite politiche ed economiche…
Appunto, Oltre a permettere di comprare la pace sociale, il petrolio produce una politica della rendita, che non necessita di lavoro e alimenta una corruzione straordinaria. Oggi la SONATRACH, (impresa nazionale degli idrocarburi) crolla sotto gli scandali della corruzione. Il presidente è in carcere, come molti quadri, a causa della corruzione. Noi vogliamo lottare contro la corruzione perché essa è divenuta strutturale, parte del sistema politico algerino. Non si tratta solo di prendere qualcuno e metterlo in galera: si tratta di cambiare struttura e sistema. Questo è ciò che rivendica la maggioranza dei movimenti sociali.

Hai detto che il regime algerino sopravvive grazie a un processo di legittimazione storica, e che è sopravvissuto, dopo la guerra civile del 1988, grazie anche al conflitto violento scatenato dai fondamentalisti islamici. Puoi spiegare meglio come la convergenza di questi due fattori abbia inciso sulla capacità dei movimenti sociali algerini?
I capi politici, il presidente e la classe politica algerina, fino a oggi, hanno tratto legittimazione dalla guerra di liberazione nazionale, dalla resistenza al colonialismo e dalla partecipazione a quel conflitto. Oggi i giovani non riconoscono più questa legittimità, ne vogliono una nuova che proviene dal popolo. D’altra parte, va anche ricordato che nel 1988 alcuni democratici algerini hanno sostenuto quei settori delle forze armate che decisero di interrompere il processo elettorale (NDR) e compiere un colpo di stato, proponendosi come guardiani della repubblica e della democrazia. Con il tempo, questa convinzione si è trasformata e la situazione è degenerata in una dittatura non proprio islamica, ma islamo-conservatice. Al potere oggi, assieme a un partito d’ispirazione islamica, c’è il FLN storico (Fronte di Liberazione Nazionale), che poco ha a che vedere con le sue radici. Così, quel partito che dopo il 1988 si è presentato come garanzia per la democrazia, si è trasformato in partito islamo-conservatore completamente chiuso verso le dinamiche sociali. Oggi, sembra ci siano due Algerie, quella del potere, con la sua visione, e il resto del paese. Due realtà che non si incontrano.
I movimenti sociali algerini sono stati duramente colpiti non solo dalla repressione dello Stato ma anche dalla violenza dei gruppi islamisti. Qual è la situazione oggi? Ci sono rapporti con differenti organizzazioni simili in altri paesi del Maghreb?
Il coordinamento nazionale sta cercando di lanciare ponti con gli studenti, gli insegnanti, i disoccupati, con tutti quei soggetti in rivolta nel paese che cercano di costruire una forza di lotta e resistenza che possa portare al cambiamento. Per quanto riguarda gli islamici oggi, non si può dire che siano scomparsi dall’Algeria, ma certo esistono diverse tipologie. Non tutti sono uguali. In realtà, è un soggetto plurale che include gli eredi del FIS (Fronte Islamico di Salvezza) che cercano di ricostruirsi un profilo. In seguito ai negoziati con il governo al potere, era stata loro garantita una collocazione nella vita politica del paese. Come altrove, non c’è, però, solo questo tipo di islamismo, ci sono i salafiti, alcuni dei quali si proclamano pacifici e perseguono il cambiamento della società attraverso l’insegnamento, l’indottrinamento, l’ideologia. Detto questo, in Algeria gli islamici non sono attori politici, sono completamente assenti dai movimenti sociali.

Qual è stata la responsabilità politica dell’Europa di fronte alla mancanza di democrazia in Algeria e di fronte all’incapacità del paese di sviluppare una propria politica economica e produttiva autonoma, che non fosse dipendente dalla monocultura del petrolio? L’Unione Europea, e in particolare Francia e Italia, hanno sostenuto questa dipendenza dal petrolio per soddisfare il loro fabbisogno energetico e ostacolando così la possibilità di uno sviluppo autonomo e sostenibile per il paese?
L’obiettivo dell’Europa non è stato mai quello di sostenere lo sviluppo dell’Algeria e di aiutarci a essere indipendenti. Non pensiamo che l’Unione Europea sia interessata alla democrazia nel nostro paese né a una indipendenza economica. Mi pare chiaro che l’Europa istituzionale sia interessata solo al commercio e all’acquisto di gas naturale, e a vendere quelle armi che i regimi usano, poi, per tenere sotto controllo il loro popolo. La Francia voleva aiutare Ben Ali in Tunisia con le armi. Io non credo che l’Europa possa salvare il nostro paese. Credo, però, che in Europa esistano forze progressiste e di sinistra, veramente democratiche, con le quali costruire progetti comuni che possano contribuire all’ indipendenza del paese ma anche al bene dei popoli europei. Quei popoli oggi vivono in una crisi profondissima, che interroga sul senso della democrazia e sul cambiamento necessario anche in Europa.

Quello che ci suggerisce, quindi, è di metterci anche noi in gioco, di condividere le vostre lotte politiche e sociali, andando oltre la solidarietà per costruire una piattaforma politica comune.
Sei d’accordo che il problema centrale per noi in Europa sia quello di mettere in discussione l’approccio dominante dell’UE verso il Maghreb, fondato sui termini di sicurezza dei confini e dello sfruttamento delle risorse naturali? Un tema che dovrebbe essere al centro del dialogo tra i movimenti sociali delle due sponde del Mediterraneo. Un’ultima domanda sulla Libia, sulla guerra che ha creato anche un dibattito all’interno della sinistra europea e immagino in quella araba.
Ecco, si faceva prima riferimento all’esportazione di un modello. Come si può credere a Sarkozy, che ieri riceveva Gheddafi in pompa magna dandogli credibilità e legittimità internazionale e oggi lo attacca per restituire la democrazia al popolo libico? Io non ho soluzioni, ma francamente mi risulta molto difficile accettarlo. Detto questo, non sono al posto dei ribelli libici, ma il ricorso alla forza da parte di paesi esterni per restaurare la democrazia ci ricorda altri casi. Basti pensare all’Iraq, dove si è voluto imporre un modello attraverso la guerra, in un paese che oggi non esiste più. Quello che sta succedendo in Libia, può portare all’iraqizzazione del paese. Una guerra civile internazionalizzata nel Maghreb può anche rappresentare una minaccia ai processi di trasformazione nella regione. È una situazione molto pericolosa, che richiede tutta la nostra attenzione e vigilanza.

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